Il salire di Gesù sul monte è eloquente: la montagna è il luogo della rivelazione e dell’alleanza. L’uomo sale faticosamente verso Dio, Dio scende umilmente verso l’uomo, e queste due umiltà generano l’incontro. Così è stato sul monte Moria, il luogo del sacrificio di Abramo (Gn 22), così è stato sul monte di Dio, Sinai o Horeb, per Mosè (Es 19-24) e per Elia (1Re 19), così è stato sul monte del tempio, sognato da Davide e realizzato da Salomone, il Sion. È perciò sul monte che Gesù disegna l’identikit del cristiano, le Beatitudini, che qui vediamo secondo la forma in cui le presenta Matteo.
Sul Monte delle Beatitudini, che nel testo di Matteo resta indeterminato quale luogo più teologico che geografico, e che la tradizione ha identificato con una collina presso Tabga sul lago di Tiberiade, Gesù dà la legge del Regno, non sostituendo quella antica, ma rivitalizzandola nel suo spirito.
Questo discorso a sua volta si articola in cinque parti:
- Le beatitudini (5,1-16): l’identikit del discepolo
- Il compimento della Torah (5,17-48): la giustizia
- I tre pilastri (6,1-18): elemosina, preghiera, digiuno
- La fiducia nel Padre (6,19-7,12)
- Fede e opere (7,13-27)
Le Beatitudini (5,1-16): l’identikit del discepolo
La beatitudine non è un’invenzione evangelica, ma si incontra frequentemente nell’Antico Testamento, nella forma «felicità di…» (ʼasherê…). Non si tratta di un buon augurio ma di una constatazione: chi così si comporta è già «beato», così come una constatazione e non un augurio di male, è il suo opposto, «guai a…»: chi così si comporta è già «inguaiato».
Emerge però, nelle beatitudini evangeliche, un ribaltamento delle prospettive umane che non ha precedenti nell’Antico Testamento se non nella figura del Servo sofferente (Is 52,13-53,12). Beati non sono i ricchi, i sazi, i felici e famosi di questa vita, ma, al contrario, coloro che a questo tipo di prosperità non attaccano il loro cuore.
Le beatitudini in Matteo sono otto (+ la nona che è un’espansione dell’ottava) a differenza di Luca che ne riporta solo quattro seguite dai corrispondenti guai (Lc 6,20 ss.), e sostanzialmente dipingono l’identikit del Cristo e quindi del cristiano come povero, affamato, afflitto per il male del mondo, perseguitato. È Gesù il vero povero che si espropria di tutto, anche di se stesso, in cuor suo, prima ancora che nella rinuncia ai beni materiali.
Matteo ne specifica la figura anche con i caratteri della mitezza e della pacificità, della purezza e della misericordia. Questi segni distintivi sono un fatto interiore prima ancora di un dato esteriore, una intima conformazione a Cristo propria del discepolo. Queste sono le disposizioni profonde che ci qualificano, una sorta di Dna ricevuto nel battesimo che dobbiamo preservare e sviluppare per tutta la vita.
Beati i poveri
Perciò la vera povertà è quella dello spirito, precisa Matteo a differenza di Luca, perché la povertà economica potrebbe essere solo indigenza.
Così pure, gli afflitti non sono puramente gli addolorati dai lutti o dalle frustrazioni della vita, ma sono coloro che fanno penitenza nell’attesa del ritorno del Cristo; i miti sono gli umili che mettono la loro vita nelle mani di Dio; la giustizia che si deve cercare instancabilmente è la salvezza di Dio.
Nell’Antico Testamento, misericordioso è solo Dio: misericordia è il suo nome (Es 34,6), per l’amore viscerale con cui si china sull’uomo per compassionarlo, abbracciarlo e salvarlo. Ma la misericordia divina è contagiosa ed esige di comunicarsi agli uomini: chi è misericordioso ottiene misericordia.
La purezza di cuore, cioè interiore e non solo rituale, è la semplicità, nel senso non della rozzezza o ignoranza della persona, ma in quello di un cuore unificato, non doppio, non diviso: solo uno sguardo che promani da questa semplicità può vedere Dio. Scriveva San Leone Magno: «È giusto che la beatitudine della visione di Dio venga promessa ai puri di cuore. L’occhio ottenebrato infatti non potrebbe sostenere lo splendore della vera luce: ciò che formerà la delizia per le anime pure, sarà causa di tormento per quelle macchiate dal peccato» (Disc. 95,8).
Così, per essere figli di Dio bisogna essere facitori di pace: non solamente temperamenti pacifici o compilatori di accordi e tregue di convenienza, ma veri operatori di scelte e costruttori di pace. La pacificazione, con la fame e la sete della giustizia, richiede una lotta, sicuramente dentro di noi, forse anche fuori di noi: «Quando si vuole la pace nel mondo, bisogna cominciare con l’averla in sé» (G. Cesbron). Tuttavia, non ci può essere conformazione a Cristo che non esca anche all’esterno con un’opera per la giustizia e per la pace.
Tutto questo ha un costo: la persecuzione per la causa del Regno. Eppure è attraverso il travaglio che si viene alla luce. Conformandosi a Cristo, sopportando le avversità il discepolo diviene sale della terra e luce del mondo.
Il sale è un elemento indispensabile per la vita (insieme all’acqua, al fuoco, al ferro, cfr. Sir 39,26) ed è prezioso perché non si trova ovunque. È metafora per la sapienza: ciò che è senza sale è sciocco, che ha anche il senso di stupido. Inoltre, il sale dà sapore, ma niente può dare sapore al sale. Il sale deve insaporire, la luce deve illuminare, ma non derivano da altro se non da Colui che è Sapienza e Luce del mondo.
Perciò non si tratta di ostentazione, ma di testimonianza: il discepolo deve far assaporare Cristo, far trasparire la sua luce. E Gesù, col dire questo, presuppone anche che il sale possa perdere il suo sapore e la luce possa essere offuscata. Essere sale e luce è la condizione nativa del cristiano ricevuta in dono nel battesimo; continuare ad essere sale e luce dipende da una scelta.