Lettura continua della Bibbia. «L’ho messo al mondo io questo popolo?»

«L’ho messo al mondo io questo popolo?»
Foto di Kingrise da Pixabay

La Bibbia, in certe sue parti, è anche un capolavoro di psicologia. È nella natura dell’uomo, a quanto pare, non avere mai abbastanza di prove e supporti: c’è sempre la necessità di chiederne ancora. Non solo il popolo del deserto, sperso in quella immensità senza appoggi, sente il bisogno di continue conferme dell’aiuto divino; lo stesso Mosè, uomo di grande fede e generosità, prova lo scoraggiamento e cedendo ad esso giunge al punto di dire al Signore: Ma che ho fatto di male? «L’ho messo al mondo io questo popolo?».

«L’ho messo al mondo io questo popolo?»

11 10Mosè udì il popolo che piangeva in tutte le famiglie, ognuno all’ingresso della propria tenda; l’ira del Signore si accese e la cosa dispiacque agli occhi di Mosè.  11Mosè disse al Signore: «Perché hai fatto del male al tuo servo? Perché non ho trovato grazia ai tuoi occhi, al punto di impormi il peso di tutto questo popolo?  12L’ho forse concepito io tutto questo popolo? O l’ho forse messo al mondo io perché tu mi dica: “Portalo in grembo”, come la nutrice porta il lattante, fino al suolo che tu hai promesso con giuramento ai suoi padri? 13Da dove prenderò la carne da dare a tutto questo popolo? Essi infatti si lamentano dietro a me, dicendo: “Dacci da mangiare carne!”. 14Non posso io da solo portare il peso di tutto questo popolo; è troppo pesante per me. 15Se mi devi trattare così, fammi morire piuttosto, fammi morire, se ho trovato grazia ai tuoi occhi; che io non veda più la mia sventura!».

«L’ho messo al mondo io questo popolo? Non posso io da solo portare questo peso…»

Le frasi umanissime con cui anche Mosè si lamenta presso il Signore danno da pensare. Prima di tutto, che anche un uomo come lui ceda al peso dello sconforto. Che anche un uomo come lui si senta abbandonato da Dio con tutto il suo peso da portare, come se avesse lui concepito e partorito questo popolo così sfiduciato e litigioso. È giusto questo? In Toscana e non solo, Mosè potrebbe arrischiarsi a dire: «Ulli ulli, chi li fa se li trastulli»; ovvero: «Il figlio è tuo, pensaci tu». Mosè si sente padre dei propri due figli, non la balia asciutta di un popolo che non è nato da lui.

In secondo luogo, lo sfogo di Mosè ci dice quanto grande fosse la sua confidenza con Dio (come farà, del resto, Giobbe, con tanti altri). nella Bibbia si può anche “litigare” con Dio, persino citarlo in giudizio; l’importante è non accantonarlo, non escluderlo dalla propria vita. Dimenticarsi di Dio, questa è la grande bestemmia. Discutere con lui, lamentarsi, contestarlo, è averlo ancora nel proprio cuore, sentirne la presenza…

Terzo: riaffiora nuovamente, qui, la natura debole di Mosè, che lo porterebbe a defilarsi dalla storia. In fondo, quando era principe in Egitto, aveva voluto far giustizia, ed aveva fallito. Vi riuscirebbe adesso, da ottantenne continuamente deluso dal suo difficile popolo? Se ne stava tranquillo a pascolare il gregge del suocero: ha forse chiesto lui di guidare un popolo intero? Ma la pace del Signore non è immobilismo né ignavia, è fuoco che chiede di divampare.

Aver coraggio non significa mancare di paura: significa saperla fronteggiare. Don Abbondio dirà: «Il coraggio, uno non se lo può dare» (Promessi Sposi XXV). Avrà torto marcio: perché il coraggio si trova, se si crede in qualcosa o meglio in Qualcuno…