
Suor Marguerite Bernès era nata ad Algeri il 30 settembre 1901 da genitori francesi. A cinque anni di età si era trasferita a Marsiglia dove aveva fatto i suoi studi di diritto e di sociologia. All’età di 27 anni aveva deciso di entrare nella Compagnia delle Figlie della Carità, fondata da San Vincenzo de’ Paoli nel 1633. Giunge a Roma nel 1933 nel convento del quartiere Prati. Tra il 1943 e il 1944, durante l’occupazione tedesca, collabora con il parroco padre Antonio Dressino per assistere i fuggitivi nascosti nella chiesa di San Gioacchino, vicina al suo convento. Provvede alle necessità dei rifugiati e assiste personalmente le donne.
Dopo la guerra rimane a Roma fino al 1953, quando parte per Gerusalemme come superiora del convento locale. A Gerusalemme e ad Ein-Karem si occupa di ragazzi disabili. A Gerusalemme ha la gioia di incontrare di nuovo alcune famiglie, tra cui i Finzi e i Moscati, cui aveva prestato aiuto a Roma in quei giorni angosciosi.
Il 15 agosto 1974 è stata riconosciuta «Giusto tra le Nazioni» dallo Yad Vashem. Così commentava il suo aver messo a rischio la vita: «Abbiamo fatto semplicemente il nostro dovere». Morirà in tarda età, il 13 aprile 1996, ad Alessandria d’Egitto.
La Sezione Aerea San Gioacchino (S.A.S.G.)

Protagonisti di questa storia sono il redentorista padre Antonio Dressino, parroco di San Gioacchino; suor Marguerite Bernès del convento delle Figlie della Carità; l’ingegnere Pietro Lestini vice-presidente dell’Azione Cattolica della parrocchia e sua figlia Giuliana Lestini, studentessa. Tutti dichiarati «Giusti tra le Nazioni», perché grazie a loro trovarono rifugio nella chiesa, tra i ricercati, anche degli ebrei. Dapprima erano stati nascosti nel teatrino parrocchiale. Poi, a partire dal 3 novembre 1943, tra la volta a botte e il tetto a capriate; in uno spazio che, per sfuggire a eventuali perquisizioni, venne murato fino alla Liberazione di Roma (4 giugno 1944).
Lo stratagemma
In un primo tempo, alcuni ricercati furono accolti nel teatrino parrocchiale; qualcuno, travestito da sacerdote redentorista, fu nascosto perfino nelle camere dei religiosi. Ma quando, il 2 novembre 1943, iniziarono le incursioni tedesche nelle chiese e nei conventi, fu deciso di trovare un nascondiglio più sicuro.
L’ingegner Pietro Lestini conosceva bene tutti gli ambienti della chiesa. Fu lui a progettare l’unica soluzione che garantisse sicurezza: occultare tutti nello spazio tra la volta e il tetto della chiesa, a 50 metri da terra!
La maggior parte dei rifugiati accettò l’idea. Alle cinque del 3 novembre l’unica porta d’accesso era murata. Alle sei e venti, uno di loro scrisse nel proprio diario: «Murati».
In quell’ambiente furono ospitate di volta in volta dalle dieci alle quindici persone. Esse potevano comunicare con l’esterno solo attraverso il rosone del timpano, apribile con sicurezza solo di notte, dall’interno. Per arrivarci bisognava salire dalla sacrestia al quarto piano della casa, raggiungendo in tal modo la base della cupola; poi, una scala a chiocciola conduceva allo stanzone.
All’inizio, quello stanzone aereo era completamente vuoto. Dopo qualche tempo furono realizzati: un gabinetto; spazi riservati per ciascun ospite, ognuno con una luce elettrica; uno spazio comune, con tavolo e sedie e una luce; una radio e alcuni fornelletti; un argano per carico e scarico dei materiali. Una scala a corda permetteva ai rifugiati l’accesso. Il sacrestano era l’addetto al carico e allo scarico dei rifornimenti e dei rifiuti.
Precauzioni
La presenza di tanta gente in quella soffitta restò nascosta, sino alla fine, a tutti, compresi i parenti più stretti. Ai familiari venivano recapitati messaggi, ma controllati e censurati da Pietro Lestini. Bisognava che i messaggi non contenessero elementi che potevano condurre alla localizzazione del nascondiglio.
Ad esempio, in una lettera scritta da uno dei rifugiati alla fidanzata, fu censurata questa frase: «Sento molto la tua mancanza specie quando odo cantare il vostro gallo». Una simile indicazione faceva capire che il nascondiglio del ragazzo era molto vicino all’abitazione della ragazza, mettendo in pericolo la vita di tutti, sia dei rifugiati che di coloro che li assistevano. Bisognava anche evitare ogni rumore, che avrebbe potuto insospettire i fedeli presenti nella chiesa.
Suor Marguerite

Il peso maggiore dell’assistenza ai rifugiati fu sostenuto da Suor Marguerite Bernès. A Roma da dieci anni, era molto conosciuta nel quartiere, per cui riuscì facilmente a trovare aiuti tra gli abitanti. Per più di sette mesi, nonostante che il pane fosse razionato, riuscì a non farlo mai mancare a «quella gente lassù». Ogni sera portava il cibo ai «murati» e il sagrestano lo tirava su con una corda. Per il pranzo di Natale 1943, suor Marguerite riuscì a far incontrare i familiari, in una sala del convento delle suore, con i rifugiati, che si erano calati con ogni prudenza dal rosone.
Carlo Prosperi, uno dei rifugiati «aerei», descriveva così Suor Marguerite: «Magra, pallida, sempre sorridente e con una espressione un po’ meravigliata; sembrava che stesse sempre per dire “bravo” con la erre arrotondata della lingua materna». Una figura di grande coraggio, impegno, tenacia.
Una consorella ricordava: «Noi avevamo un po’ paura, forse anche molta; lei no, non ha mai avuto paura». Leopoldo Moscati, il più giovane dei rifugiati, allora quindicenne, spiegava così l’operato di quel gruppo di cattolici, religiosi e laici: «un verissimo spirito umanitario, senza che sia mai trapelato alcun interesse e pressione di carattere economico, religioso, politico…». Sua madre era nascosta nel vicino convento di suor Marguerite, la casa delle Figlie della Carità.
Fonte: https://anpi.it/media/uploads/patria/2013/1943_a_Roma_De_Vincentiis_gen2013.pdf