
La vocazione di Mosè è la vocazione di un fallito. Finalmente viene per Mosè e per il suo popolo il momento del riscatto. Giunge inaspettato, quando Mosè più non ci pensa. La sua identità di prima, paragonabile a quella di un principe d’Egitto – identità ricevuta dalla madre adottiva e coltivata da lui stesso -, è distrutta; quel che resta è un migrante in terra altrui, un pastore che pascola un gregge neppure suo: è il gregge del suocero. Il nome che Mosè ha imposto al figlio, Gherson, da gher / straniero, dice tutta la sua amarezza: straniero in terra straniera. Il gher nel linguaggio biblico è l’immigrato, il nokrì lo straniero di passaggio.
Mosè, quando prende coscienza del suo stato, cerca delle soluzioni umane… Va verso i suoi fratelli, prende visione della loro situazione, cambia luogo sociale, prende anche posizione contro il mondo degli oppressori e uccide uno di loro. In questo gesto si compromette e fa giustizia, ma è una giustizia umana. Cerca anche di portare la pace facendosi giudice fra i suoi fratelli, ma viene rifiutato perché si è autocandidato a tale compito (“Chi ti ha costituito capo e giudice su di noi?”) e perché si presenta con la violenza (“Pensi forse di uccidermi, come hai ucciso l’egiziano?”).
La reazione umana al fallimento (adesso Mosè è cercato a morte anche dagli egiziani) è la fuga. È un fallito. Così si conclude l’avventura basata sulle risorse umane di Mosè: nella costruzione di una vita normale, con moglie, figli, lavoro, un luogo in cui abitare.
Ma chiunque di noi è sempre recuperabile da Dio. Adesso che Mosè non può più accampare il suo orgoglio, credere di agire con le sue forze, adesso è uno strumento utile per Dio.
C’è un midrash che dice che solo quando si vive la propria miseria, il proprio dolore, è allora che si sente la voce di Dio. Il ben-essere, il bene-stare facilmente distolgono l’attenzione facendola convergere su ciò che momentaneamente soddisfa: riaffiora il tema della sofferenza come «megafono di Dio». Mosè adesso è predisposto all’ascolto, nel naufragio della sua esistenza: la sua è la vocazione di un fallito. Quando non è più buono per gli uomini, finalmente è buono per Dio.
Una scena del film “I DIeci Comandamenti” (1956) QUI.
La vocazione di un fallito
Dio finora aveva dato solo segni indiretti della Sua presenza, attraverso l’aumento numerico del popolo (1,7.12.20), la connivenza delle levatrici egiziane (1,15-21), l’intervento della figlia del faraone (2,1-11). Dio rimane fedele alla promessa, ma solo adesso, passando all’azione per mezzo di Mosè, appare ascoltare e ricordarsi del suo popolo.
Non è dunque Mosè che arriva a Dio, ma è Dio stesso che gli si manifesta: si rivela in un fuoco che illumina ma non annienta, anzi chiede la collaborazione dell’uomo, secondo, però, le modalità del Donatore e non del chiamato:
- Lo chiama per nome (3,4),
- Gli mostra come vivere l’esperienza che sta facendo (la santità del luogo richiede rispetto (3,5),
- Gli manifesta la sua identità
Non è un Dio qualsiasi, né un Dio astratto, ma il Dio che si è legato alla storia del suo popolo impegnandosi con lui.
La vocazione nella quotidianità
Come tanti altri poi nella Bibbia, Mosè sente la chiamata di Dio quando è immerso nel suo vissuto quotidiano. È un pastore, fa pascolare il gregge. Secondo il midrash, è pieno di cura amorevole per tutti gli animali a lui affidati, giovani e anziani, deboli e robusti.
«Un giorno dal gregge scappò un agnello e Mosè, che lo inseguiva, vedendo che si fermava a ogni corso d’acqua esclamò: “Povero cucciolo, non sapevo che avessi sete e che corressi in cerca di acqua! Ora sarai sfinito”. Perciò se lo caricò sulle spalle e lo riportò all’ovile. Allora Dio disse: “Tu che hai compassione di un gregge che è patrimonio degli uomini, per certo avrai compassione d’Israele, che è patrimonio mio”» (cfr. Louis Ginzberg, Le leggende degli ebrei, IV, Adelphi 2003, p. 64).
Dio allora lo chiama dal roveto ardente, un arbusto umile e per di più in preda alle fiamme, come Israele nel crogiuolo della sofferenza d’Egitto; ma al tempo stesso, la fiamma che non consuma rimanda anche alla presenza della Divinità: racchiusa tra i miseri rami, suggerisce l’idea che anche il Signore soffra – se così si può dire – insieme al suo popolo.
Tuttavia Mosè non è chiamato per se stesso. Nessuno nella Bibbia è mai chiamato per se stesso: la missione riguarda sempre gli altri, ed è nel servizio degli altri che l’uomo trova anche se stesso, il proprio Io più vero. «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze (Es 3,7)».
Dal film I dieci comandamenti: QUI.