La vocazione di Mosè è la vocazione di un fallito. Finalmente viene per Mosè e per il suo popolo il momento del riscatto. Giunge inaspettato, quando Mosè più non ci pensa. La sua identità di prima, paragonabile a quella di un principe d’Egitto – identità ricevuta dalla madre adottiva e coltivata da lui stesso -, è distrutta; quel che resta è un migrante in terra altrui, un pastore che pascola un gregge neppure suo: è il gregge del suocero. Il nome che Mosè ha imposto al figlio, Gherson, da gher / straniero, dice tutta la sua amarezza: straniero in terra straniera. Il gher nel linguaggio biblico è l’immigrato, il nokrì lo straniero di passaggio.
C’è un midrash che dice che solo quando si vive la propria miseria, il proprio dolore, è allora che si sente la voce di Dio. Il ben-essere, il bene-stare facilmente distolgono l’attenzione facendola convergere su ciò che momentaneamente soddisfa: riaffiora il tema della sofferenza come «megafono di Dio». Mosè adesso è predisposto all’ascolto, nel naufragio della sua esistenza: la sua è la vocazione di un fallito. Quando non è più buono per gli uomini, finalmente è buono per Dio.
Una scena del film “I DIeci Comandamenti” (1956) QUI.
La vocazione nella quotidianità
Come tanti altri poi nella Bibbia, Mosè sente la chiamata di Dio quando è immerso nel suo vissuto quotidiano. È un pastore, fa pascolare il gregge. Secondo il midrash, è pieno di cura amorevole per tutti gli animali a lui affidati, giovani e anziani, deboli e robusti.
«Un giorno dal gregge scappò un agnello e Mosè, che lo inseguiva, vedendo che si fermava a ogni corso d’acqua esclamò: “Povero cucciolo, non sapevo che avessi sete e che corressi in cerca di acqua! Ora sarai sfinito”. Perciò se lo caricò sulle spalle e lo riportò all’ovile. Allora Dio disse: “Tu che hai compassione di un gregge che è patrimonio degli uomini, per certo avrai compassione d’Israele, che è patrimonio mio”» (cfr. Louis Ginzberg, Le leggende degli ebrei, IV, Adelphi 2003, p. 64).
Dio allora lo chiama dal roveto ardente, un arbusto umile e per di più in preda alle fiamme, come Israele nel crogiuolo della sofferenza d’Egitto; ma al tempo stesso, la fiamma che non consuma rimanda anche alla presenza della Divinità: racchiusa tra i miseri rami, suggerisce l’idea che anche il Signore soffra – se così si può dire – insieme al suo popolo.
Tuttavia Mosè non è chiamato per se stesso. Nessuno nella Bibbia è mai chiamato per se stesso: la missione riguarda sempre gli altri, ed è nel servizio degli altri che l’uomo trova anche se stesso, il proprio Io più vero. «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze (Es 3,7)».
Dal film I dieci comandamenti: QUI.
Le obiezioni di un deluso
Mosè è un ottantenne e verremo anche a sapere che è balbuziente o comunque impacciato nel parlare (Es 4,10; 6,12.30). Ha fallito da giovane, cosa potrà mai fare da anziano e sfiduciato?
La risposta di Dio però non è basata sulle virtù di Mosè: «Io sarò con te. Io ci sono. Io ci sarò sempre». Questa in sostanza la replica di Dio all’obiezione di Mosè. Anzi, poiché il racconto è complesso, le obiezioni non sono una come nei racconti di vocazione di altri personaggi, ma tre: «Io non sono nessuno. Io non so il tuo nome. Io non so parlare».
L’elemento dell’obiezione è importante nei racconti di vocazione, perché dà per certo che non si tratta di auto vocazione, garantisce che il chiamato non si chiama da solo; anzi è recalcitrante di fronte all’incarico divino.
È Dio che deve superare le giuste obiezioni del chiamato con la sua rassicurazione. «Non temere: Io sarò con te. Io ci sono. Tuo fratello parlerà per te». Della rassicurazione fa parte anche il segno: spesso il segno viene chiesto dal chiamato, ma anche a Maria che non lo chiede il segno viene dato ugualmente: «Ed ecco Elisabetta tua parente…». Il segno è importante, perché siamo fatti di carne e di sangue ed abbiamo bisogno di vedere, di toccare. Per questo viviamo in una economia sacramentale, dove i segni visibili sono anche efficaci e conferiscono la grazia che significano. Ce un’abbondanza di segni nel racconto di vocazione di Mosè. Non manca niente. Ma non è finita.
Battesimo di sangue
Finalmente convinto, Mosè parte con la moglie, i figli (che ora sono due: Gherson ed Eliezer) e l’asino (una sorta di Sacra Famiglia ante litteram, compresa la frase che poi risuonerà nel vangelo dell’infanzia di Matteo: «Va’, torna… perché sono morti quanti insidiavano la tua vita!» – 4,19) e torna al luogo di cui è nativo. Per la cronaca: nel midrash, l’asino è sempre lo stesso che aveva condotto Abramo sul monte Moria, e sarà lo stesso sul quale si presenterà il Messia facendo il suo ingresso glorioso in Gerusalemme.
Durante il viaggio, «il Signore gli venne contro e cercò di farlo morire. 25 Allora Zippora prese una selce tagliente, recise il prepuzio del figlio e con quello gli toccò i piedi e disse: «Tu sei per me uno sposo di sangue». 26 Allora si ritirò da lui. Essa aveva detto sposo di sangue a causa della circoncisione» (4,24-26).
Questo breve racconto suscita domande importanti. Perché Dio cerca di togliere la vita a Mosè, subito dopo averlo mandato in Egitto per salvare gli Israeliti? E inoltre, perché si dice che Dio «cercò di ucciderlo»? Non è l’Onnipotente? Si comporta come un semplice uomo, che tenta di compiere un’azione, con la possibilità che questa non riesca?
Questo stranissimo episodio, forse il più strano di tutta la Bibbia, in cui Dio sembra rimangiarsi tutto quello che aveva detto e promesso per scagliarsi contro il chiamato ed ucciderlo, va messo in parallelo con l’altro strano episodio in cui Giacobbe lotta con Dio nel suo viaggio di ritorno al luogo natio.
La situazione è la stessa: un uomo solo, la notte, che va incontro al suo destino, forse incontro alla morte (Giacobbe perché deve vedersela con l’ira del fratello, Mosè perché deve affrontare il faraone). Forse alla base del racconto biblico c’è un episodio di malore improvviso che coglie il protagonista della vicenda. La vita di un intero popolo dipende dalla vita di quell’uomo: di Giacobbe perché è il capostipite, di Mosè perché è (o dovrebbe essere) il liberatore. Eppure Dio, che li ha scelti, contraddittoriamente li assale e quasi li uccide. È in fondo la stessa situazione del sacrificio di Isacco: Dio promette un figlio da cui dovrebbe nascere il suo popolo, lo fa nascere prodigiosamente, poi lo richiede a morte.
È, nel suo culmine, il mistero della sofferenza: Tu – sembra dire il chiamato – mi incarichi di qualcosa di molto difficile, di impossibile, e poi mi impedisci di farlo, anzi mi porti al limite della morte. O, peggio ancora: dici che farai una cosa e poi ne fai un’altra?
Potremmo chiamarlo battesimo di sangue. Non nel senso proprio di adesione di fede mediante il martirio, ma nel senso traslato di investitura cruenta, l’affrontare per la prima volta una grave difficoltà da cui non si esce indenni. Appare come una sorta di purificazione, forse un apprendistato per prepararsi a battaglie più ardue…
Giacobbe ne esce azzoppato per un colpo basso del suo misterioso Avversario che lo sconfigge con le sue stesse armi, astuzia e slealtà. Ma ne esce anche benedetto per sempre.
Mosè ne esce illeso perché la moglie Zippora compie un atto sostitutivo dello spargimento del suo sangue, lo spargimento del sangue del figlio mediante la circoncisione, in una sorta di sposalizio mistico. Mosè diviene sposo di sangue: la sua missione inizia all’insegna della contraddittorietà, del mistero, della incomprensibilità delle azioni divine. Non si può capire fino in fondo, talvolta nemmeno in superficie la dialettica divina. A volte lineare, a volte (anzi, molto spesso) tortuosa e imperscrutabile. L’unica risposta umana possibile è la fiducia. E di fiducia ne occorre tanta. Se questo è il buongiorno, quali saranno gli sviluppi?
Interpretazioni rabbiniche
Secondo i rabbini, questo episodio è focalizzato nell’insegnare la fondamentalità della pratica della circoncisione. Ma questo non risolve le difficoltà. Tenendo presente che la lotta di Giacobbe con l’angelo è una sorta di premonizione della difficoltà imminente di affrontare l’ira del fratello Esaù, anche questo episodio riguardante Mosè viene spiegato come un presagio della salvezza di cui sarà segno il sangue dell’agnello nella futura notte di Pasqua (Ibn Ezra). Mosè ha avuto qui il penoso privilegio di poter scrutare il proprio avvenire ed intuire la possibilità di scampo.
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