Abbiamo parlato, recentemente, della necessità di vivere la vita nel presente, perché il passato non esiste più, il futuro non esiste ancora, e solo il presente è il tempo che più assomiglia all’Eternità. È nel presente che si svolge la nostra vita, anche se le premesse sono nel passato e il progetto di vita deve guardare al futuro.
Riguardo al vivere nel presente riporto un passo di San Gerolamo. Tuttavia attingo prima, per queste considerazioni, alla saggezza di C.S. Lewis che nelle Lettere di Berlicche, dopo aver fatto dire all’esperto arcidiavolo che Il presente è il punto nel quale il tempo tocca l’eternità, affida alla penna del diabolico tentatore questo altrettanto diabolico consiglio nei confronti degli uomini.
Vivere nel presente. Dalle Lettere di Berlicche (Lettera XV)
«Il nostro lavoro è di allontanarli sia dall’eterno sia dal presente. A questo fine talvolta tentiamo un essere umano (una vedova, ad esempio, o uno studioso) a vivere nel passato. Ma ciò vale soltanto limitatamente, poiché essi hanno una conoscenza determinata del passato e il passato ha una natura determinata, e, sotto questo aspetto, assomiglia all’eternità. È molto meglio farli vivere nel futuro. Le necessità biologiche vi dirigono già tutte le loro passioni, cosicché il pensiero del futuro infiamma la speranza e il timore. Inoltre esso è sconosciuto, e quindi, facendoli pensare ad esso li facciamo pensare a cose irreali. Insomma il futuro è, fra tutte, la cosa meno simile all’eternità. È la parte più compiutamente temporale del tempo – poiché il passato è ghiacciato e non scorre più, e il presente è tutto illuminato dai raggi dell’eternità…
Si sa, anche il Nemico [Dio] vuole che gli uomini pensino al futuro – solo quel tanto che è necessario per stabilire ora i piani per gli atti di giustizia e di carità che forse saranno il loro dovere domani. Il dovere di stabilire i piani del lavoro di domani è un dovere di oggi; benché il suo materiale sia preso a prestito dal futuro, il dovere, come ogni dovere, è nel presente.
Questo non è spaccare un capello in quattro. Egli non vuole che gli uomini diano il loro cuore al futuro, che ripongano in esso il loro tesoro. Noi [diavoli] sì. Il Suo ideale è un uomo che, avendo lavorato tutto il giorno per il bene della posterità (se tale è la sua vocazione), si libera la mente da ogni pensiero, di quel lavoro, lascia le conseguenze al Cielo, e ritorna senza indugio alla pazienza e alla gratitudine, che il momento che passa su di lui gli richiede.
La fine dell’arcobaleno
Noi invece vogliamo un uomo che sia stregato dal futuro – invasato da visioni di un cielo o di un inferno imminenti sulla terra – pronto a rompere i comandi del Nemico nel presente… Noi vogliamo tutta una razza che persegua perpetuamente la fine dell’arcobaleno, non mai onesta, non mai gentile, né felice ora, ma che usi continuamente come pura esca da collocare sull’altare del futuro ogni vero dono che le viene offerto nel presente…
Ma, naturalmente, è probabilissimo che egli [l’uomo] stia “vivendo nel presente”… semplicemente perché la sua salute è buona ed egli sta godendo del suo lavoro. In questo caso il fenomeno sarebbe unicamente naturale. Ma io lo troncherei lo stesso, se fossi te. Nessun fenomeno naturale è in realtà in nostro favore.
E, del resto, perché mai la creatura dovrebbe essere felice?
Tuo affezionatissimo zio Berlicche».
Dal «Commento all’Ecclesiaste» di san Girolamo
A paragone di colui che si nutre delle sue sostanze nel turbinio delle sue preoccupazioni e dei suoi affanni e, con grave peso e tedio della vita, accumula cose destinate poi a perire, il sapiente afferma che è migliore colui che gode di quanto gli sta davanti. In questo secondo caso, infatti, per quanto piccola, una certa soddisfazione c’è e precisamente nell’uso dei beni. Nel primo caso c’è solo un cumulo di fastidi. Il sapiente dimostra anche perché deve ritenersi un dono di Dio poter godere delle ricchezze affermando: «non penserà molto ai giorni della sua vita».
Rallegrarci nelle occupazioni
Certamente il Signore concede gioia al suo cuore: non sarà nella tristezza, non sarà tormentato dall’ansia, assorbito com’è dalla letizia e dal piacere presente. Ma è meglio, secondo l’Apostolo, scorgere il bene da godere non tanto nel cibo e nella bevanda materiale, ma nel nutrimento dello spirito concesso da Dio. C’è un bene nelle fatiche proprio perché solo attraverso fatiche e sforzi possiamo arrivare alla contemplazione dei veri beni. Ed è proprio ciò che dobbiamo fare: rallegrarci nelle nostre occupazioni ed attività. Quantunque però questo sia un bene, tuttavia «fino a che Cristo nostra vita non si sarà manifestato» (cfr. Col 3, 4) non è ancora il bene completo.
Deve ritenersi veramente saggio colui che, istruito nelle divine Scritture, ha tutta la sua fatica sulle sue labbra e la sua brama non è mai sazia (cfr. Qo 6, 7), dal momento che sempre desidera di imparare. In questo il savio si trova in condizione migliore dello stolto (cfr. Qo 6, 8), perché, sentendosi povero (quel povero che è proclamato beato dal vangelo), si affretta ad abbracciare ciò che riguarda la vera vita, cammina sulla strada stretta e angusta che conduce alla vita ed è povero di opere malvage, e sa dove risiede Cristo, che è la vita.