Viaggio nella Bibbia. Come il male e la sofferenza si intrecciano nel cammino degli uomini

Viaggio nella Bibbia: Abramo e la promessa di discendenza. Adolf Hult (1869-1943)
Adolf Hult (1869-1943), Abramo e la promessa della discendenza

Un viaggio nella Bibbia. Avevo iniziato, ormai mesi fa, a rileggere con voi la Scrittura iniziando dal primo versetto di Genesi, e in effetti è su questo versetto che, articolo dopo articolo, mi sono arenata. Ho interrotto il percorso perché la tragica vicenda della guerra in Ucraina, che tra l’altro rischia di spingere l’umanità verso un terzo conflitto mondiale, mi ha portato ad affrontare il problema della sofferenza umana, in particolare della sofferenza degli innocenti. Abbiamo, così, visto uno dopo l’altro i tre libri biblici del silenzio di Dio (Giobbe, Qoheleth e Lamentazioni), oltre alla trattazione che direttamente il grande scrittore cristiano C.S. Lewis fa del problema del dolore umano (Il problema della sofferenza e Diario di un dolore).

Adesso desidero riprendere le tappe bibliche del problema della sofferenza in modo più ordinato, cioè seguendo il canone delle Scritture, che per primo ci presenta il libro della Genesi. Dopo la caduta, l’umanità non è più stata esente dal dolore, e neppure il mondo naturale, basato sulla violenza: uccidere ed essere uccisi. Vogliamo vedere insieme dove questa traccia, questo viaggio nella Bibbia ci conduce?

Viaggio nella Bibbia. Genesi 1: un mondo senza violenza

L’uomo, creato per essere immagine di Dio, deve rifletterne nel mondo la sovranità che è santità e giustizia e misericordia; il governo che il Signore gli affida non è assoluto, ma deve fare riferimento al dominio di Dio che è paternità. Del resto, i verbi che lo esprimono, kâbash e râdâh, assoggettare e dominare, non indicano solo il mettere qualcuno sotto i piedi, ma anche il prendere pacificamente possesso ed esercitare una guida benevola: l’azione paterna del sovrano dell’antichità verso i sudditi.

E infatti a conclusione dell’Esamerone creazionale, prima del ritornello finale «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona. E fu sera e fu mattina: sesto giorno» (1,31), il narratore evidenzia il comando con cui Dio assegna in cibo all’umanità frutti e cereali e agli animali il foraggio (1,29-30): non come ricordo storico reale di un periodo in cui tutti erano vegetariani, ma come affermazione teologica che il mondo è stato creato nella pace e per la pace e che nel disegno di Dio la vita di uno non deve campare della morte di un altro. L’uomo, a immagine di Dio, deve stabilire rapporti di mitezza. La morte, o almeno la morte violenta, la sofferenza, non fa parte di questo progetto: eppure tanta sofferenza entra nel mondo, come dimostra con tutta evidenza l’esperienza umana. Da dove ha origine, allora?

Viaggio nella Bibbia. L’irruzione della sofferenza nel mondo

Il narratore (o i narratori) che incontriamo nel nostro viaggio nella Bibbia non ha dubbi: la volontà di dominio dell’adam / umanità trasforma in sopraffazione – sottomissione i rapporti di fraternità, e in violenza il rispetto reciproco. Le cosiddette maledizioni (che non augurano un male che ancora non c’è, ma mettono in risalto il male che già c’è, e che l’uomo si è fatto con le sue mani) mettono in evidenza il grande travaglio che il peccato suscita nel mondo: il travaglio della maternità, ma anche di una sottomissione della donna che non era nel progetto divino; il travaglio che la terra e l’uomo si causano reciprocamente nella fatica del lavoro. Il dolore fisico, ma anche quello morale. La sopraffazione.

Ne fa le spese Abele, dei due fratelli il più debole (il suo nome significa “soffio”); se ne fa forte Caino con tutta la sua stirpe, cui è attribuita l’invenzione delle arti e della tecnologia ma anche della poligamia e della vendetta smodata (cap. 4). Se ne macchia anche la generazione del diluvio, che riempie di violenza e di corruzione la terra (6,11-13).

Se ogni cosa si è corrotta sulla terra, la sofferenza viene dai rapporti umani distorti e dalla natura sconvolta e contaminata. Anche l’innocente soffre per il peccato dei suoi consanguinei, dei suoi compatrioti. Il permesso, dopo il diluvio, di nutrirsi di carne, esprime questo rapporto di violenza che si è instaurato fra l’uomo e le altre creature (Gn 9,2); la sentenza di versamento del sangue di colui che versasse il sangue dell’altro esprime il rapporto di violenza fra gli uomini. La violenza dilaga, e con essa la sofferenza. Dio non “vuole”, ma permette quelle che sono le conseguenze delle scelte sbagliate degli uomini, nel piccolo come nel grande.

Viaggio nella Bibbia. Una storia di salvezza: Abramo

Ma dove abbonda il peccato sovrabbonda la grazia; dove avviene una caduta, una stortura, sempre interviene l’azione divina di riscatto. La risposta di Dio alla caduta originaria era stata una promessa di salvezza, la vittoria del seme della donna sul serpente immagine del Male; la costruzione dell’arca è la risposta alla corruzione portata dall’umanità sulla terra e alla conseguente distruzione dovuta al diluvio. La risposta al peccato che ormai ha invaso tutta la terra disgregando l’umanità è la vocazione di Abramo.

L’inizio di un cammino

La vita di Abramo non è facile, è irta di difficoltà e di angosce. Prima della sua vocazione potremmo immaginare in lui una duplice pena: certamente quella di avere una sposa sterile, Sara (la mancanza di figli era nell’antichità, specialmente quella biblica, la maggiore maledizione che si potesse immaginare); e forse il disagio di vivere immerso in un politeismo idolatra che lo lasciava insoddisfatto. La vocazione ad uscire da quella terra, dalla sua famiglia e dalla casa di suo padre chiede una lacerazione, ma in fondo dona una liberazione: spezza i vincoli che lo tenevano prigioniero di un culto profondamente errato, lo fa libero di adorare il suo Dio. Non rimedia però alla sterilità della sposa ormai anche anziana, benché fin dall’inizio risuoni una promessa che appare quasi irrisoria: «Farò di te un grande popolo…» (Gn 12,2). Ci vorranno 25 anni perché la promessa veda il compimento.

Una strada lunga

Quanta pazienza, Abramo! Il figlio della promessa non si vede, e non si può umanamente vedere. La strada di Abramo è un percorso ad ostacoli: prima Sara viene rapita dagli egiziani (cap. 12), poi una grossa tensione fra i servitori di Abramo e di Lot suo nipote porta lo scompiglio in famiglia (cap. 13), poi viene rapito Lot e Abramo lo deve recuperare (cap. 14)…

E intanto Abramo pensa a come risolvere i suoi problemi. È da notare che, per ovviare alla sterilità di Sara, il capofamiglia non ricorre alla soluzione più naturale in quei tempi di poligamia: prendersi un’altra moglie più giovane e presumibilmente feconda. No, a questo Abramo non ricorre di sua iniziativa, come sarebbe stato suo diritto secondo i costumi dell’epoca: ripudiare la sterile e sostituirla con un’altra, oppure prendersi una seconda sposa o una concubina.

La generosità sempre e verso tutti, anche andando contro i propri diritti, è una costante psicologica di questo personaggio, che ha tutte le caratteristiche di una figura reale anche se nessuna fonte storica ne parla al di fuori della Bibbia. Quindi, per rimediare alla mancanza di un figlio, Abramo non offende la sposa, ma pensa di provvedere con un’adozione; no, ribatte Dio, uno nato da lui sarà suo erede (cap. 15). Accetterà allora da parte della moglie Sara l’offerta dell’unione con una schiava, Agar, per procreare legalmente a nome suo una progenie al marito (cap. 16: l’utero in affitto e l’eterologa hanno origini antiche, anche se con mezzi rudimentali); nasce Ismaele figlio di Abramo; ma no, non sarà lui il figlio della promessa, sarà un bambino nato da Sara sterile e ormai novantenne (cap. 17).

La fede di Abramo

Abramo crede contro ogni speranza, e non possiamo pensare che questo gli sia stato facile. Le ricchezze esteriori, che non gli mancavano, non potevano compensare quel vuoto che si portava dentro fin dall’inizio della sua vita sponsale e che era forse stato acuito dalla promessa divina. Si potrebbe obiettare: bella forza, a lui Dio appariva di persona… Ma no, il linguaggio biblico non ci obbliga a pensare ad una «apparizione». I livelli di comunicazione di Dio con l’uomo, infatti, sono tre, nella Scrittura:

  • Sensoriale (il soprannaturale si fa sensibile, e chiunque può vedere o sentire ciò che si rivela all’esterno)
  • Percettivo (esternamente non si verifica alcunché; sono le facoltà interne, visive, uditive, a recepire una visione, o un suono)
  • Intellettivo (la comunicazione non avviene con immagini o con suoni, ma solo con una esperienza intima). Questa è la modalità cui corrisponde normalmente l’espressione «Dio disse»… una voce di silenzio che parla nell’intimo.

Tutto questo parlare di Dio con Abramo, sostanzialmente, è riferibile ad una voce interiore che il patriarca sente e di cui si fida. Una mozione interiore, se vogliamo, senza quegli effetti speciali che ci farebbero dire: «Bella forza per lui obbedire a Dio, gli appariva di persona…». Abramo è, insomma, uno di noi, uno come noi che si è fidato straordinariamente di Dio.

Quando Dio sembra contraddirsi

La sua attesa è ricompensata: il figlio della promessa nasce, cresce (cap. 21), e… viene reclamato indietro. Una sofferenza chiesta, inflitta da Dio (cap. 22). Qui la sofferenza umana, in tutta la sua assurdità, tocca il culmine. L’episodio del sacrificio del figlio segna una tappa importante del concetto biblico di “prova” e dello sviluppo del tema della sofferenza del giusto. Abramo ne è il prototipo, tanto che è l’unico personaggio che l’Antico Testamento chiama “l’amico di Dio”. Servi tanti, ma amici… una posizione di privilegio, quindi, che ha molto da dirci.