«Vanità delle vanità»: il libro del Qoheleth

Vanità delle vanità: quante domande... Immagine di pubblico dominio
Punto interrogativo. Pixabay

«Vanità delle vanità» è la famosa frase di apertura e il motto di un libro difficilissimo della Bibbia, il Qoheleth o Ecclesiaste, dedicato ad una riflessione sul senso delle cose. Ascoltiamolo nell’interpretazione di Angelo Branduardi nel film di Luigi Magni State buoni se potete (1983) dedicato alla figura di San Filippo Neri (qui interpretato da Johnny Dorelli): QUI. Lo potete vedere anche in un recente concerto, quaranta anni dopo: QUI.   

«Vanità delle vanità»: il Qoheleth o Ecclesiaste

Vanità delle vanità: domande senza risposta. Immagine di pubblico dominio
Quante domande senza risposta…

1,3 Che vantaggio viene all’uomo da tutta la fatica in cui si affatica sotto il sole?

9 Ciò che è stato è ciò che sarà, ciò che è stato fatto è ciò che si farà.

Niente di nuovo sotto il sole.

3,20 Allora la disperazione ha invaso il mio cuore,

pensando a tutta la fatica che ho sopportato sotto il sole,

 21 perché c’è un uomo che si è affaticato con sapienza, con scienza e con impegno

e deve lasciare ciò che è suo a un altro che non ci ha messo nessuna fatica.

Anche questo è vanità e male grande.

4,1 Ho poi esaminato tutti i soprusi che si fanno sotto il sole.

Ho considerato il pianto degli oppressi e ho visto che nessuno li consola.

Dalla mano dei loro oppressori non esce che violenza: nessuno li consola.

 2 Allora ho detto beati i morti che già sono morti, più dei vivi che ancora son vivi.

 3 Ma meglio ancora di tutti e due, chi ancora non è nato,

perché ancora non ha visto tutto il male che si fa sotto il sole.

Il libro

C’è un altro libro, nella Bibbia, oltre a quello di Giobbe, dedicato interamente ad una meditazione sulla condizione umana: il Qoheleth o Ecclesiaste (da non confondere con l’Ecclesiastico, modernamente rinominato Siracide). Anche nel Qoheleth viene trattato il problema della sofferenza umana, ma con un tono completamente diverso rispetto al libro di Giobbe. In Giobbe, il grido è lacerante: le espressioni sono quelle di un uomo distrutto dalla vita (per una riflessione su Giobbe, QUI). In Qoheleth, le riflessioni sono forse anche più amare, ma come disincantate, distaccate. Qoheleth, a differenza di Giobbe, non è l’Uomo dei dolori: è un filosofo che pur non usando un linguaggio filosofico riflette sui mali dell’essere, sulla Totalità. Prima di arrivare a leggere il testo dobbiamo prenderci un po’ di tempo per presentarlo.

Un libro sacro?

È uno dei libri più difficili dell’Antico Testamento, per la problematicità del suo messaggio. Se Qohelet, come sembra, insegna la vanità totale della vita dell’uomo («Vanità delle vanità, tutto è vanità»), come è stato possibile accoglierlo nel canone dei libri sacri? Anche Voltaire, su questo, ha detto la sua. Prendiamola cum grano salis.

Anche Voltaire ha da dire qualcosa

«Chi parla, in quest’opera, è un uomo disingannato dalle illusioni di grandezza, stanco dei piaceri e disgustato della scienza. È un filosofo epicureo, che ripete ad ogni pagina che il giusto e l’empio sono soggetti agli stessi accidenti; che l’uomo non ha niente in più della bestia; che sarebbe meglio non esser nati, che non c’è un’altra vita, e che non c’è niente di buono né di ragionevole se non il godere in pace il frutto delle proprie fatiche assieme alla donna amata. L’intera opera è di un materialista a un tempo sensuale e disgustato. Sembra soltanto che all’ultimo versetto sia stata aggiunta una frase edificante su Dio, per diminuire lo scandalo che un tal libro doveva provocare…

Quel che sbalordisce è che quest’opera empia sia stata consacrata fra i libri canonici. Se si dovesse stabilire oggi il canone della Bibbia, non ci si includerebbe certo l’Ecclesiaste; ma esso vi fu inserito in un tempo in cui i libri erano molto rari, ed erano più ammirati che letti»

(Salomone, in Dictionnaire philosophique).

Il salto dello squalo

Possiamo condividere lo stupore di Voltaire, se non la sua condanna del Qohelet. Dicevamo che leggere Giobbe è come cercare di stringere fra le mani un’anguilla; leggere Qoheleth è peggio, è come fare il salto dello squalo. Spiego l’espressione: nel linguaggio televisivo, indica la situazione in cui qualcosa di grande raggiunge un punto di crisi, e deriva da un episodio di Happy Days (1977) in cui il mitico Fonzie, per strafare, vince la scommessa di saltare uno squalo.

Il salto dello squalo QUI:

Nel leggere il Qoheleth sembra di dover saltare uno squalo. Eppure la tradizione giudaica non ha mai avuto seri dubbi, ed anzi l’ha annoverato tra le Megillôth, i cinque “Rotoli” liturgici (si legge nella festa delle  Capanne,  in  autunno). Quindi gli si attribuisce anche una certa importanza. Le Megillôth si leggono in sinagoga nelle seguenti feste:

Pasqua: Cantico dei Cantici

Pentecoste: Rut

9 di Ab (distruzione del Tempio): Lamentazioni

Festa delle Capanne: Qohelet

Festa di Purim: Ester

L’autore

Vanità delle vanità... Il libro del Qoheleth viene attribuito, dalla tradizione, a Salomone. Incisione di Gustave Doré
Salomone. Gustave Doré

L’autore  è chiamato Qoheleth, con un termine che è il participio presente del verbo QaHaL, e indicherebbe colui che parla nell’assemblea, nei LXX Ekklesiastés, l’Ecclesiaste, il membro della Chiesa.

Curiosamente il participio è femminile, ma è un nomen agentis, secondo un uso linguistico per cui in ebraico con questi sostantivi femminili si designavano uffici o funzioni, come sofereth = l’ufficio dello scriba; press’a poco come, in italiano, «la presidenza», «la vigilanza», «la sicurezza», «la guardia»…

L’autore si presenta con lo pseudonimo di «figlio di Davide, re di Gerusalemme» (1,1.12), quindi Salomone, un Salomone ormai vecchio, distaccato dalle sue colpe, e giunto al culmine della saggezza. Questa attribuzione ha facilitato l’inclusione nel canone. Chiaramente siamo in presenza di uno pseudoepigrafo, come è dimostrato dagli studi filologici. Il riferimento a Salomone lo lega ad altri due libri biblici, il Cantico dei Cantici e i Proverbi. R. Jonathan diceva:

Quando un uomo è giovane, canta canzoni d’amore [il Cantico dei Cantici].

Quando un uomo diventa adulto, enunzia massime di vita [i Proverbi].

Quando un uomo è vecchio, parla della vanità delle cose [Qohelet].

Quindi, c’è il momento della giovinezza e dell’amore, c’è il momento della maturità e della pacatezza, e c’è il momento della vecchiaia e della crisi. È su questo che riflette il Qoheleth.

Data di composizione

La lingua del Qoheleth è piena di aramaismi e di neoebraismi, anche la sintassi non è più quella classica, perciò lo scritto appartiene al periodo post-esilico.

Due termini persiani (pardēs = parco in 2,5 e pitgām = decreto in 8,11), gli aramaismi e l’ebraico simile a quello post-biblico della Mishnâ, dimostrano che il libro è stato redatto fra il 300 e il 200 a.C., quando Gerusalemme si trova sotto l’occupazione dei Tolomei (301-223 a.C.), ma ancora in pace (mancano accenni particolari ad uno stato di guerra) e benessere per le classi alte, con grande divario rispetto agli umili. In questo periodo vengono introdotte in Palestina nuove tecnologie: l’irrigazione artificiale, la ruota a secchielli (Qo. 12,6), l’aratro, il torchio a vite.

Non siamo ancora, invece, alla persecuzione religiosa (160 a.C.), né ad una vera e propria ellenizzazione forzata della Palestina. Ciò è confermato dal ritrovamento a Qumrân di un frammento del Qohelet, databile al 150 circa a.C., per cui la datazione più probabile è la fine del 3° secolo a.C.

Un libro «filosofico»

Non c’è una vera familiarità di Qohelet con la lingua e con la cultura greca, ma alcuni critici sostengono un influsso diretto del pensiero greco su Qoheleth (M. HENGEL, R. BRAUN, N. LOHFINK), e la questione è aperta. Certamente una certa influenza ellenistica nella Palestina del 3° secolo a.C. si deve ammettere, e secondo BONORA Qohelet può essere considerato una sorta di “filosofo” che tentò un dialogo fra l’ebraismo e la filosofia popolare ellenistica (cinici, stoici, epicurei, scettici). In effetti, come vedremo, il libro del Qoheleth rappresenta una riflessione sulla “totalità”, però con categorie integralmente semitiche. Quando in 3,11 Qoheleth parla di “senso dell’eternità” nell’uomo, in realtà questo ‘olam non esprime un concetto filosofico, ma piuttosto il rapporto con il mondo o il senso della storia (indica una “durata” nel tempo e nello spazio).

Il messaggio

La domanda inquietante di Qoheleth è il senso della vita: se sia una fatica e una disgrazia o se sia un dono di Dio di cui godere. Come per Giobbe, il libro del Qoheleth potrebbe essere sottotitolato: «C’è una risposta ad ogni domanda?». E la conclusione, come per Giobbe, sarà: le domande che l’uomo può porre saranno sempre più grandi delle risposte – in questa vita. Ma con quale spirito le pone il Qoheleth?