Nel libro dei Giudici ci incontriamo prima con due donne formidabili, che si rivelano molto più forti degli uomini: Deborah e Giaele (articolo QUI). Ugualmente nobile sarà il caso di Gedeone… ma non della sua fine e della sua stirpe.
Ai due capitoli (4-5) dedicati a Deborah, in cui la figura femminile si staglia sullo sfondo costituito dai guerrieri, segue immediatamente il ciclo di Gedeone (chiamato Jerub-Baal = Baal difenda, per la sua guerra al paganesimo), di cui viene presentata la vocazione da parte dell’angelo di JHWH e la renitenza vinta da un segno prodigioso (un fuoco consuma i cibi posti sull’altare). Un secondo segno conferma la missione vittoriosa di Gedeone: la rugiada della notte bagna il vello deposto sull’aia e non il terreno circostante, la notte dopo il vello soltanto resta asciutto e la rugiada copre tutto il terreno.
Una vocazione per la comunità
Da rilevare che Gedeone non distingue la sua sorte da quella del suo popolo. La vocazione non è un atto separato dalla storia e dalla vita quotidiana e dalla comunità. La missione riguarda sempre il popolo, e il chiamato ne è un rappresentante: non si tratta affatto di un privilegio individuale.
Non è detto, inoltre, che comporti fin dall’inizio una piena coscienza; implica, invece, una crescita progressiva. La chiamata non è scoperta subito e all’improvviso e pienamente, ma si fa strada nella nostra storia, man mano che si approfondisce la “scoperta” di Dio. Questo non vale solo per le vocazioni sacerdotali e religiose, ma per la vocazione di ogni battezzato nella Chiesa.
La vocazione di Gedeone è una vocazione guerresca, quella di combattere grandi battaglie con pochi mezzi. Al termine della sua missione, Gedeone rifiuta dignitosamente la funzione regale per sé e per i suoi discendenti (“il Signore regnerà su di voi”: 8,22), ma finisce poi per erigersi un santuario privato e per farsi un harem da cui gli nasceranno 70 figli.
Una rivalsa delle donne?
Ciò è visto come causa di rovina per lui e per la sua casa. Infatti uno dei suoi figli, Abimelech, si fa re di Sichem sua città, uccidendo tutti i fratellastri tranne il più piccolo, Iotam, che prima di fuggire via ammonisce i concittadini con il noto apologo degli alberi che vogliono darsi un re. È evidente la volontà di gettare cattiva luce sulla monarchia, come istituzione inutile e rischiosa, volontà espressa anche dalla brutta fine di Abimelech, che sconfiggerà i sichemiti ribelli ma verrà colpito a morte da una macina gettata da una donna da una torre durante l’assedio. Abimelech si farà dare il colpo di grazia dallo scudiero per evitare l’ignominia di morire per mano di una donna (Gdc 9).
Così, le ambizioni personali dei condottieri naufragano miseramente, mentre l’unica cosa che resta importante è la salvezza del popolo di Dio – ottenuta, è innegabile, mediante la guerra. Una storia iniziata bene, quella di un piccolo uomo che confidava in Dio, era proseguita con la sua rinuncia formale al potere, ma si era dissolta nell’agiatezza ed era degenerata nell’ignominia. È notevole che lo strumento di questa rovina finale di un’arroganza e un’ambizione smodata sia una donna, una casalinga, visto che si serve, per tramortire il re guerriero, di un pezzo di macina. Nemmeno di un’arma, dunque!
Quel che possiamo dire fino ad ora è che sembra quasi che la prestanza maschile sia ridimensionata ad opera delle donne. Caratterizzate dalla staticità della vita domestica, Deborah, Giaele e l’anonima sichemita fanno da contraltare al dinamismo maschile, spesso inficiato dalla paura (si pensi ai ventiduemila uomini che tornano a casa per la paura di affrontare il nemico in battaglia) o estremizzato dall’arroganza.