
Dopo il Trittico di preparazione di Gesù al ministero, Marco presenta l’insegnamento nuovo di Gesù, condotto con una autorità mai vista (1,14-3,35). Lo mostra in azione attraverso l’autorità con cui Gesù insegna, e con una serie di miracoli che rappresentano l’irruzione del Regno di Dio nella storia.
Una autorità mai vista (Mc 1,14-45)
Il Regno di Dio è qui (1,14-15)
Gesù insegna e guarisce. Proclama con la parola e con i gesti la buona notizia: il Regno di Dio è vicino. L’espressione greca usata nel testo è mal tradotta, ma questo solo perché il verbo greco che esprime tale vicinanza è intraducibile in italiano. Essendo al tempo perfetto, esprime una azione che, iniziata nel passato, svolge i suoi effetti nel presente. Non “si è avvicinato” né “si avvicina”, ma, potremmo forse dire, “si è già avvicinato e continua a farsi più vicino” il Regno di Dio.
Quello di “Regno di Dio”, infatti, è un concetto dinamico: è il “regnare di Dio”, la sua sovranità, piuttosto che un luogo in cui si entra o un reame a cui si appartiene. Potremmo dire non tanto che noi dobbiamo entrare nel Regno di Dio, quanto che è il Regno di Dio che deve entrare in noi. È il dinamismo dello Spirito, cioè, che deve regnare nelle nostre persone mortali e renderle vive come figli del Regno.
La novità del Vangelo è radicale: non permette l’immobilismo, mette in movimento, almeno interiormente. La conversione, infatti, ebraicamente è un ritorno (teshuvah), un mutamento di rotta, un ripercorrere il cammino. Ad alcuni chiamati, poi, la conversione chiede un dinamismo anche fisico, e la sequela di Cristo diviene un vero e proprio cammino fisico.
Vocazione (1,16-20)
I primi chiamati sulla via del Regno sono due coppie di fratelli, quattro pescatori. Si crea con loro una nuova fraternità, una famiglia basata non su meri legami di sangue ma sulla vocazione al discepolato, sulla fede.
A differenza dei rabbini, che venivano scelti come maestri dagli aspiranti studenti, è Gesù che sceglie i propri discepoli: «Venite dietro a me… andarono dietro a lui».
Reti, barche, garzoni, padre, famiglia, appartengono ad un passato di sedentarietà che come Abramo i discepoli sono chiamati a lasciare per consacrarsi non ad un luogo ma ad una Persona: sempre pescatori, perché la vocazione si incarna nel vissuto del chiamato, ma pescatori di uomini per la vita, ormai, non più pescatori di pesci per la morte.
«Venite dietro a me» (1,17) è la parola che risuona al centro del brano: detta per i primi chiamati, risuona ancora per noi oggi.
Una autorità mai vista: autorità sugli spiriti (1,21-28)
La successiva sequenza, che mostra una autorità mai vista di Gesù sugli spiriti immondi, ha al suo centro la proclamazione di uno di questi: «So chi tu sei: Il Santo di Dio!» (1,24). L’autorità di Gesù, ben superiore a quella degli scribi, è tale che persino gli spiriti impuri gli obbediscono. Insegnamento e autorità sono le parole chiave del brano, ma non si tratta solo di parole: i gesti di Gesù sono efficaci più di quanto siano efficaci i gesti degli uomini.
L’autorità di Gesù, ben superiore a quella dei maestri in Israele, stupisce, ma la sua identità rimane nascosta agli occhi degli uomini. Solo i demoni lo riconoscono, perché ne hanno una visione soprannaturale. Ne hanno una esperienza diretta, molto superiore a quella degli esseri umani, ma non salvifica, perché non basta sapere chi è Dio, occorre accoglierlo nella propria vita: «Tu credi che esista un solo Dio? Fai bene. Ma anche i demoni credono, e tremano» (Gc 2,19).
La fede non vissuta non è vera fede. Chi proclama a parole ma non accompagna le parole con le azioni, anzi le smentisce, rimane sterile; addirittura, diviene una contro testimonianza che può fare molto, molto male alle anime e alla Chiesa.
Il Santo di Dio
Ci può sembrare poco, oggi, riconoscere che Gesù è «il Santo di Dio»: ma Dio solo è Santo, «haqQadosh Baruk Hu», «il Santo, Benedetto Egli sia», come recita la fede di Israele. In forma arcaica ma inconfondibile, questa affermazione è la confessione della divinità di Cristo. Più avanti, i demoni proclameranno, in maniera più comprensibile alla mentalità occidentale greco-romana: «Tu sei il Figlio di Dio».
Questo riconoscimento dell’identità divina chiarisce il motivo dell’autorità di Gesù: egli parla ed agisce con l’autorità stessa di Dio. I rabbini parlavano sempre in nome di qualcun altro (ad esempio: Disse R. Simeone a nome di R. Joseph a nome di R. Eleazar…), intendendo così risalire, per mezzo di una catena ininterrotta di tradizioni e di tradendi, fino a Mosè sul Sinai: ed è bellissimo questo ricollegarsi al fatto originario della Rivelazione. Ma Gesù va oltre e parla in nome proprio, fatto inaudito e mai tentato da alcuno. Matteo lo espliciterà con le “antitesi” del Discorso della Montagna: «Vi è stato detto… ma Io vi dico». L’autorità esercitata in prima persona sugli spiriti impuri lo dimostra: «Taci… esci!».
Una autorità mai vista: autorità sulla malattia (1,29-38)
Stessa autorità sulla natura: la febbre maligna, che getta a terra una donna, svanisce al solo tocco della mano di Gesù. Nel mondo profano della casa familiare nasce la prima preghiera dei discepoli: non per sé, ma per l’inferma. «Gli parlano di lei»: è una fraternità che si esprime al plurale e che intercede per chi ha bisogno ed è troppo prostrato per supplicare. E l’esaudimento viene espresso con un semplice gesto, prendere per mano una donna che la malattia poteva aver reso impura, e con verbi che oggi per noi non hanno risonanza, ma che per la chiesa apostolica erano tutto:
- «la rialzò» – verbo egheiro, quello della resurrezione; dunque la donna, presa per mano dal Maestro, risorge;
- «li serviva» – verbo diakoneo, il verbo del servizio ecclesiale, della diakonia; all’imperfetto, dunque un’azione che continua nel tempo. La donna, risorta in Cristo, è il prototipo del discepolo, servo di tutti (9,3).
La preghiera di Gesù
Ma il centro unificante di tutti queste parole autorevoli e gesti di salvezza nella dimensione della preghiera: l’esistenza rischia la dispersione se non trova un centro di unità nella vita interiore. È il rapporto col Padre, nello Spirito, che rende Gesù nostro fratello, e non il semplice fatto che egli sia evangelizzatore, pastore e taumaturgo.
Per il computo del tempo, Marco segue la suddivisione romana del giorno. Mentre per gli ebrei il giorno inizia col tramonto della sera precedente (cfr. anche i primi Vespri della nostra liturgia), per i romani il giorno va dal sorgere del sole fino a quello successivo. La notte romana è divisa in quattro veglie: sera, mezzanotte, canto del gallo e mattino (13,35). Benché dunque ormai la sera sia calata, e il buio imperi, Gesù guarisce malattie e scaccia demoni, ed è nell’oscurità più fitta che si apparta per pregare. La notte, foriera di tenebre, per Gesù è piena di luce: la luce della relazione con gli uomini, che guarisce, la luce della relazione con il Padre, cui egli si affida.
Ma Gesù non si fa rinchiudere in nessuna relazione autogratificante: nessuna casa, nessuna folla lo può contenere. E non è solo: entra a Cafarnao accompagnato dai primi quattro discepoli, e al plurale parlerà in conclusione: «Andiamo».
Gesù purifica un lebbroso (1,39-45)
«Purificazione» è la parola chiave dell’episodio, nella cui parte centrale ricorre ben 4 volte (tre come verbo e una come sostantivo). Una purificazione impossibile, perché la lebbra, che oggi si cura con un banale sulfamidico, nell’antichità era la malattia più temibile, incurabile ma non solo: per i suoi visibili effetti di corruzione del corpo, la lebbra era l’immagine in carne e ossa del peccato che corrode l’anima, che disfa l’uomo intero.
Eppure Gesù valica l’impurità della lebbra come valica l’impurità del peccato; con una parola che non ammette resistenze (Voglio, sii purificato) ma anche con un gesto mai visto: Gesù tocca il lebbroso! Chi toccava un lebbroso diventava a sua volta impuro; ma Gesù lo tocca. Lo tocca perché ne ha compassione: gli fremono le viscere, quelle viscere di misericordia materna che sono il massimo attributo divino (splanchna). Ma questa compassione non è buonismo o lassismo, ha il suo rigore: la legge non è annullata, va osservata. Un precetto stabilisce che il lebbroso guarito compia il rito di purificazione presso un sacerdote (Lv 14), e questo deve fare anche il lebbroso guarito dalla Salvezza in persona.
Il segreto messianico
Al lebbroso guarito Gesù intima il silenzio. Ma quello divulga la Parola e Gesù è ridotto, assediato dalla folla, a rifugiarsi nel deserto. I ruoli sembrano invertiti: il lebbroso, prima condannato all’isolamento, si fa proclamatore pubblico della Parola, mentre Gesù, come un lebbroso, esce dalla città in cerca di solitudine.
Ci può sorprendere nei sinottici, soprattutto nel Vangelo di Marco, un elemento vistoso di riservatezza che è stato chiamato «segreto messianico», ai limiti dell’assurdità, perché imposto anche su fatti clamorosi avvenuti in pubblico. Tale paradosso è stato spiegato anticamente con l’umiltà di Gesù, che non vuole ricevere una gloria umana, o con la gradualità della rivelazione, in quanto Gesù non vuole che il suo messianismo sia frainteso. Più recentemente, si è compreso che il segreto messianico cessa nel momento in cui Gesù entra nella sua passione: solo allora, quando il mistero pasquale si compie, il Cristo si rivela nella sua vera natura e può essere finalmente annunciato nella verità. Non è per i miracoli, insomma, che Gesù vuol essere cercato. Non è il miracolo a rivelare il vero rapporto di Gesù col Padre, ma la sua croce e la sua resurrezione.