
Il testo biblico ci mette davanti ad una sofferenza inimmaginabile. Gli ebrei vengono visti dagli egiziani come una minaccia e si cerca di impedir loro di ribellarsi ed anche di crescere. Si pianifica un genocidio: l’uccisione di tutti i neonati ebrei maschi. Dov’è Dio in quel momento? Non ci sono parole per esprimere il dolore. Solo un grido. Ma Dio resta muto anche allora. Dovranno passare molti anni.
Da quello che è un vero e proprio genocidio scampa – ed è questa la risposta silenziosa di Dio – un solo bambino, Mosè, che sarà il liberatore del suo popolo. Ma non lo potrà fare a modo suo. Quanti anni di sofferenza dovranno ancora trascorrere? Lo dice il testo stesso: In quei giorni lunghi… (2,23). Forse duecento anni sono pochi per la storia di un popolo. Ma per gli individui che li stanno vivendo, il peso sembra insostenibile.
Le velleità umane si infrangono nella sofferenza
Mosè, cresciuto alla corte del faraone, non dimentica le proprie radici. Si impietosisce dei suoi fratelli ebrei e uccide l’egiziano che ne maltrattava uno; poi vuol fare da giudice fra due litiganti. Ha le sue velleità di giustizia e di riscatto, ma non sono quelle che potranno liberare il suo popolo. È costretto a fuggire, ad assumere la condizione di rifugiato, a perdere la propria identità. Straniero in terra straniera. Eppure è in quel crogiuolo di dolore, quando Mosè, pastore del gregge di suo suocero, sente di non essere più nessuno, di non poter contare su niente, che Dio lo chiama. O forse lo chiamava anche prima, lo ha sempre chiamato, ma era Mosè che non aveva la capacità di sentirlo, arroccato dentro un proprio progetto.
La sofferenza gli ha aperto le orecchie e il cuore. E sembra che la sofferenza apra anche le orecchie e anche gli occhi e il cuore a Dio, se così si può dire:
«I figli d’Israele gemevano a causa della schiavitù e alzavano delle grida; e le grida che la schiavitù strappava loro salirono a Dio. Dio udì i loro gemiti. E Dio si ricordò del suo patto con Abramo, con Isacco e con Giacobbe. Dio vide i figli d’Israele e ne ebbe compassione (2,23-25)».
Il Dio che ci conosce

Sembra assurdo che prima di questo momento Dio non vedesse, non udisse e non avesse compassione. In realtà il testo non dice “ne ebbe compassione”. Il verbo usato è jada‘ che significa conoscere: Dio conosce gli oppressi, è in rapporto vivo con loro, li tiene nella sua mano, nel suo cuore: passa all’azione. Con lo stesso significato viene usato il verbo zakar: “si ricordò” – non perché li avesse dimenticati, ma perché è finalmente venuto il momento di entrare nella storia dell’uomo a indirizzare gli eventi. Dio ricorda e conosce. Tiene tutto dentro il suo cuore (il cuore è la sede del pensiero, secondo il linguaggio biblico) e ama con le sue viscere (che sono la sede delle passioni). Sa lui quando e come agire.
Non importa quanto sia lungo il tempo dell’attesa, nessuna di quelle sofferenze va sprecata. Dio sembra cieco e sordo e muto, ma vede e ascolta e conosce le pene del suo popolo. Si parla di gemito, di urlo, di grido d’aiuto, di lamento. Non è detto neppure che si trattasse di invocazione, di preghiera: è un grido di dolore inarticolato, ed è stato paragonato al pianto di un neonato. Esprime un bisogno, ma non è consapevole né volontario; è una richiesta di aiuto, ma il bambino non lo sa. Ben lo sa, però, la madre. È così che Dio risponde al sofferente: con la cura di una madre. Ma non sempre il sofferente ne è consapevole, anzi spesso non se ne rende conto.
Mi viene in mente, a questo riguardo, l’apologo delle orme sulla spiaggia, prima presentato come anonimo ed ora attribuito a Margaret Fishback. Sia come sia, è bellissimo:
Orme sulla sabbia
«Questa notte ho fatto un sogno,
ho sognato che ho camminato sulla sabbia
accompagnato dal Signore
e sullo schermo della notte erano proiettati
tutti i giorni della mia vita.
Ho guardato indietro e ho visto che
ad ogni giorno della mia vita,
apparivano due orme sulla sabbia:
una mia e una del Signore.
Così sono andato avanti, finché
tutti i miei giorni si esaurirono.
Allora mi fermai guardando indietro,
notando che in certi punti
c’era solo un’orma…
Questi posti coincidevano con i giorni
più difficili della mia vita;
i giorni di maggior angustia,
di maggiore paura e di maggior dolore.
Ho domandato, allora:
“Signore, Tu avevi detto che saresti stato con me
in tutti i giorni della mia vita,
ed io ho accettato di vivere con te,
perché mi hai lasciato solo proprio nei momenti
più difficili?”.
Ed il Signore rispose:
“Figlio mio, Io ti amo e ti dissi che sarei stato
con te e che non ti avrei lasciato solo
neppure per un attimo:
i giorni in cui tu hai visto solo un’orma
sulla sabbia,
sono stati i giorni in cui ti ho portato in braccio”».