Il consiglio di amministrazione dell’Università di Trento ha approvato all’unanimità un nuovo regolamento in cui, in nome dell’inclusività, tutte le cariche vengono declinate solo al femminile anche se riferite a maschi. Così, non si dovrà più dire il rettore, il segretario, il professore, ma la rettrice, la segretaria, la professoressa, la decana, le componenti del Nucleo di valutazione, la direttrice del Sistema bibliotecario, utilizzando il «femminile sovraestesteso» così come finora si è usato il maschile sovraesteso che comprendeva anche le donne; adesso basta, per riferirsi sia a donne sia a uomini si utilizzerà solo il femminile.
Né reduplicazione né asterischi: tutto al femminile!
Motivo? Lo spiega il rettore, pardon, la rettrice Flavio Deflorian:
«Abbiamo notato che accordarsi alle linee guida sul linguaggio rispettoso [quello reduplicato] avrebbe appesantito molto tutto il documento. In vari passaggi infatti si sarebbe dovuto specificare i termini sia al femminile, sia al maschile. Così, per rendere tutto più fluido e per facilitare la fase di confronto interno, i nostri uffici amministrativi hanno deciso di lavorare a una bozza declinata su un unico genere».
In effetti, declinare ogni volta sostantivi e aggettivi al maschile e al femminile è molto faticoso e rende poco fluido il discorso. Faccio anche notare che l’Accademia della Crusca ha bocciato queste reduplicazioni retoriche, come ha escluso tassativamente asterischi e shewa (un approfondimento QUI).
Così, è stata presa la decisione di declinare tutto al femminile, per far provare ai maschi quanto pesi alle donne, facendole sentire escluse, che si dica sempre tutto al maschile (mah?). Ne è nato il nuovo regolamento: «I termini femminili usati in questo testo si riferiscono a tutte le persone» (Titolo 1, art. 1, comma 5). Ha confessato il rettore, anzi la rettrice Flavio Deflorian:
«Leggere il documento mi ha colpito. Come uomo mi sono sentito escluso. Questo mi ha fatto molto riflettere sulla sensazione che possono avere le donne quotidianamente quando non si vedono rappresentate nei documenti ufficiali. Così ho proposto di dare, almeno in questo importante documento, un segnale di discontinuità. Una decisione che è stata accolta senza obiezioni».
La decisione ha insomma uno scopo provocatorio, possedendo una «valenza particolarmente simbolica» e venendo assunta «anche per mantenere all’attenzione degli organi di governo la questione».
Tutto al femminile: l’Università delle Amazzoni
Per evitare l’uso ridondante della duplicazione retorica, o l’uso degli asterischi e shewa che rendono le parole impronunciabili, ma al tempo stesso «promuovere un uso non discriminatorio della lingua italiana nei vari ambiti della vita quotidiana della comunità universitaria», contrastando l’utilizzo del «maschile sovraesteso» e «il sessismo», l’università di Trento ha adottato una misura ancora più assurda. Si è dato spazio al fantasy e si è creato un mondo di amazzoni, insomma, nel quale il maschio (almeno nominalmente) è messo al bando…
Tuttavia, cè anche chi non si sente rappresentato né dal maschile né dal femminile: come la mettiamo? Infatti, asterischi e shewa sono in crisi.
Asterischi e shewa
Pare sia iniziata una guerra agli asterischi e agli shewa, che rendono i testi incomprensibili – oltre che illeggibili – e generano confusione. Così la Baviera, dal 1° aprile, ha proibito “das Sternchen”, la stellina, ovvero l’asterisco, in scuole, università e istituzioni. Sostituire la desinenza maschile (ma anche femminile) con l’asterisco (*), lo shewa (ₔ), oppure la chiocciola (@), la X o persino la u (da escludersi perché in alcuni dialetti è una terminazione maschile), sono tutti tentativi pietosi di sostenere la parità linguistica abolendo le disimmetrie grammaticali dovute al maschile sovraesteso.
In una intervista rilasciata al quotidiano «Avvenire», la linguista Valeria Della Valle, dell’Accademia della Crusca, direttrice del «Dizionario Treccani», il primo a presentare aggettivi e nomi al femminile e al maschile (per cui fu prontamente ribattezzato Dizionario Treccagne), ha sostenuto:
«L’asterisco non può essere usato come vocale finale che nasconde il genere perché rende incompresibile anche la declinazione singolare o plurale. Salta l’accordo grammaticale, indispensabile per riconoscere i rapporti logici tra parole. Usare l’asterisco nei testi giuridici, nelle sentenze o nelle comunicazioni pubbliche provocherebbe dubbi, incomprensioni e fraintendimenti… Una scelta che vorrebbe essere inclusiva finirebbe, al contrario, per essere discriminante nei confronti di coloro che hanno una scarsa alfabetizzazione. In Italia molti cittadini non hanno dimestichezza con l’italiano, un asterisco come finale di parole li metterebbe a disagio, confondendoli. Altro discorso per lo schwa, un suono presente in molte lingue e anche in alcuni dialetti meridionali italiani, nel napoletano per esempio, in cui la vocale finale di molte parole non viene pronunciata».
Allora, tutto al femminile! «Dove mai si va a cacciare il diritto…»
Mi viene da commentare tutte queste diatribe con una frase per la quale sono grata al Manzoni: «Dove mai si va a cacciare il diritto!».
Il grande scrittore, e conoscitore dell’animo umano e dei meccanismi sociali, inserisce questo commento tra parentesi nella storia di Ludovico-Padre Cristoforo («Promessi Sposi» IV) quando osserva che, secondo la consuetudine, chi camminava dando la destra al muro aveva il diritto («dove mai si va a cacciare il diritto», appunto!) «di non istaccarsi dal detto muro per dar passo a chi che fosse; del che allora si faceva gran caso». Nel romanzo, la contesa su tale minuzia provoca addirittura due uccisioni.
Traducendo il pensiero in termini attuali: con tutti i problemi reali di vita o di morte che ci sono nel mondo…