«Tu distruggi la speranza dell’uomo!». Questa accusa nei confronti di Dio risuona nell’ultima replica di Giobbe nella prima serie di dialoghi, quella fatta a Zofar. Il terzo amico, Zofar, incarna il prototipo della sapienza tradizionale, come Elifaz rappresentava la profezia e Bildad il diritto. Lo dimostra insistendo sulla sapienza e sull’osservazione sperimentale della realtà. Zofar si applica con zelo a dimostrare la validità della teoria della retribuzione. È inconcepibile che Giobbe si dichiari innocente; Dio potrebbe svelargli tutte le sue miserie, e Giobbe potrebbe capire che l’unica via percorribile è quella della conversione.
A differenza dei primi due amici, il tono di Zofar è aggressivo ed egli è l’unico ad attaccare Giobbe personalmente attribuendogli subito rigidamente l’equazione peccato-castigo. All’inizio Zofar contesta l’affermazione di Giobbe sulla sua integrità: Dio con la sua sapienza potrebbe benissimo dimostrargli la sua colpa segreta (11,2-6). Dio è la stessa Sapienza incommensurabile in tutte le quattro dimensioni cosmiche: altezza, profondità, ampiezza e lunghezza (11,7-9).
Per questo Egli cita in giudizio l’uomo e non viceversa come farnetica Giobbe. Il giudizio di Dio è infallibile, ma il peccatore che è Giobbe può trovare il perdono e ribaltare la propria situazione. Con il ritorno a Dio e la pratica della giustizia la vita di Giobbe tornerà alla pace e alla felicità (11, 10-20).
La risposta di Giobbe a Zofar (cap. 12-14)
A questo punto Giobbe riprende la sua indagine sulle causa del dolore dell’innocente, quasi ignorando l’intervento di Zofar. Il suo discorso si può dividere in tre parti.
Prima parte: nessuno nega l’Onnipotenza di Dio (12,1-13,12)
La prima parte, 12,1-13,12, è una replica alle disquisizioni degli amici che offrono solo spiegazioni trite e ritrite, contraddette anziché provate dai fatti (12,2-6). Giobbe desidera giudicare costoro, che si arrogano il monopolio della sapienza, anziché essere da loro giudicato. Persino gli animali sanno, e lo potrebbero insegnare, quello che gli amici di Giobbe affermano, cioè che Dio è Onnipotente! Si potrebbe chiedere al bestiame, agli uccelli, ai rettili, ai pesci, e ce lo direbbero! Dio potrebbe sgominare chiunque, con la sua sapienza e la sua forza (12,7-25). Chi lo nega?
Giobbe lo ha sperimentato, come hanno fatto i suoi amici così bene informati sulla mente di Dio (13,1-3). Ma questo non risolve il suo problema: tacere, piuttosto che parlare, sarebbe un atto di sapienza, invece di blaterare sentenze di cenere (13,4-12). Soltanto Giobbe, senza ipocrisie, può confrontarsi con Dio faccia a faccia.
Seconda parte: Giobbe affronta Dio (13,13-18)
Nella seconda parte del suo discorso (13,13-28), Giobbe decide di affrontare Dio per difendere la propria innocenza.
13 15 «Certo, mi ucciderà, non ho più speranza;
tuttavia difenderò la mia condotta davanti a lui.
16 Già questo sarà per me una vittoria,
perché un empio non compare davanti a lui.
17 Ascoltate attentamente le mie parole,
e il mio discorso giunga ai vostri orecchi.
18 Ecco, ho preparato un processo,
cosciente di essere innocente».
Da imputato, Giobbe si trasforma in accusatore: il Dio che ha fatto l’uomo deve dare risposte alle sue domande legittime. Se Dio accusa l’uomo, provi le sue accuse, perché sembra invece accanirsi contro la sua creatura che ha fatto debole e indifesa.
Terza parte: «Tu distruggi la speranza dell’uomo!» (cap. 14)
Dopo la sua drammatica requisitoria contro Dio, Giobbe passa ad un tono più riflessivo (cap.14), prendendo in considerazione la miseria della condizione umana in generale. Una esistenza composta di precarietà e d’inquietudine, di impurità e di finitezza (14,1-6) che Dio non dovrebbe braccare. Paradossalmente, una pianta ha più speranza dell’uomo perché un tronco inaridito può ancora germogliare, al contrario dell’essere umano (14, 7-17). L’immagine del sacchetto menzionato nel v. 17, in cui Dio raccoglie i peccati dell’uomo, proviene dall’uso beduino di riporre in un sacchetto un numero di pietre bianche pari al numero degli animali del gregge.
14,18 «Ohimè! come un monte finisce in una frana
e come una rupe si stacca dal suo posto,
19 e le acque consumano le pietre,
le alluvioni portano via il terreno:
così tu annienti la speranza dell’uomo.
20 Tu lo abbatti per sempre ed egli se ne va,
tu sfiguri il suo volto e lo scacci.
21 Siano pure onorati i suoi figli, non lo sa;
siano disprezzati, lo ignora!
22 Soltanto i suoi dolori egli sente
e piange sopra di sé».
In realtà, Dio distrugge ogni speranza dell’uomo (14,18-22). Guardate che questa espressione è veramente forte, perché utilizza il verbo “avad” (distruggere) che è alla base del nome avaddon che indica l’abisso che inghiotte gli uomini, lo sheol, e nell’Apocalisse di Giovanni designa il re dell’abisso (Ap 9,11), il Distruttore. Che dire di più?
Tuttavia, a conclusione della prima serie di dialoghi, possiamo affermare che Giobbe ha ribaltato ogni obiezione che gli è stata fatta, non ha maledetto Dio come aveva scommesso il satana, ma non ha neppure chiesto perdono come volevano gli amici, perché sarebbe stata solo un’ ipocrisia. È pronto, invece, ad affrontare Dio.
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