Tre controversie, tre trabocchetti per prendere in trappola Gesù facendolo schierare per un partito o per l’altro e alienandogli il resto del popolo.
Gli erodiani e il tributo (Mt 22,15-22)
La prima controversia è suscitata da farisei ed erodiani, questi ultimi sostenitori del potere monarchico e quindi del dominio romano che lo avvalla. La domanda, mirata ad intessere un tranello, inizia con un atto di captatio benevolentiae, una lusinga che viene rivolta al Maestro sulla sua schiettezza senza compromessi. Gli erodiani erano i sostenitori della monarchia di Erode Antipa allineata con Roma. Rispondere che il tributo, il census, non si doveva pagare all’imperatore pagano equivaleva a dichiararsi ribelle; rispondere il contrario significava scontentare le folle che volevano un Messia antiromano.
I sostenitori della dinastia degli Erodi, a partire da Erode il Grande e poi con il figlio Erode Antipa, non erano un gruppo religioso, né un partito organizzato. Erano filo romani e provenivano verosimilmente dalle gerarchie politiche degli Erodi e dalla loro corte.
L’ammontare del census dovuto a Cesare equivaleva al salario di un giorno di lavoro, un denaro d’argento a testa, uomini e donne fino ai 65 anni.
A Cesare quel che è di Cesare
Il denaro porta impressa l’effigie del Cesare di turno, in questo caso l’imperatore Tiberio, quindi appartiene alla sfera degli obblighi civili. Ma questa sfera non è illimitata: a Cesare quel che gli spetta, a Dio, però, quello che appartiene solo a Lui.
Al tempo di Gesù, la questione sembra senza via di uscita: dichiarare la liceità del tributo all’invasore romano renderebbe Gesù passibile di accusa di collaborazionismo, negarla equivarrebbe a farne un ribelle. Pro o contro Cesare?
Ma Gesù trova sempre la terza via che per gli avversari risulta inconcepibile. La moneta che porta l’effigie di Cesare appartiene a Cesare cioè alla sfera dello Stato cui anche il credente, come cittadino, appartiene, e verso cui ha dei doveri, perciò a Cesare la moneta deve essere resa (questo è il verbo usato); a Dio ciò che appartiene a Dio, ovvero la vita intera. Il denaro del tributo è pertanto una restituzione all’amministratore dello Stato.
La questione della resurrezione: i sadducei (Mt 22,23-33)
Il secondo gruppo che affronta Gesù è quello dei sadducei che non credevano nella resurrezione, e che ne ridicolizzano l’idea con la paradossale domanda sulla donna che ebbe sette mariti. La controversia è di natura caricaturale.
Ma Gesù si appella proprio al Pentateuco, l’unica parte della Scrittura che i sadducei ritenevano ispirata, per dimostrare che il Signore si presenta come il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe parlandone al presente, quindi sono viventi in lui e per lui (Es 3,6).
Gesù si mostra particolarmente duro con il loro errore che nega la vita eterna. Nella sua risposta rinfaccia ai sadducei di misconoscere le Scritture e di negare la potenza di Dio. La concezione che essi ridicolizzano è quella, grossolanamente materialistica, di una vita eterna che sia un’estensione della vita terrena, mentre la vita gloriosa è simile a quella degli angeli dei cieli. Nella resurrezione uomini e donne non prenderanno più moglie né marito, «ma sono come angeli nei cieli». Gli esseri umani non si angelizzeranno mai, divengono simili agli angeli perché come loro vivono nell’eternità di Dio, ma rimangono esseri di carne e di sangue…
L’importanza della corporeità: non siamo angeli
Attenzione, «simile», non identica: oggi si stanno confondendo dimensioni di esistenza che sono invece completamente distinte. Contro l’odierna tendenza diffusa ad «angelizzare» tutto, è necessario precisare che gli esseri umani non si trasformano, con la morte, in angeli. La corporeità è una componente inalienabile del nostro essere uomini, per cui la fede che professiamo è quella della resurrezione della carne, non l’immortalità di un’anima disincarnata; corporeità trasfigurata, gloriosa, non più appesantita da coordinate spazio-temporali, ma vera corporeità con la nostra identità personale.
Gli angeli non sono e non saranno mai uomini buoni spiritualizzati, i diavoli non sono e non saranno mai uomini malvagi dannati. Gli angeli, come pure gli angeli caduti, sono creati come puri spiriti e la costituente corporea è loro completamente estranea. Gli uomini, invece, sono creati come persone costituite da anima e corpo, in cui il dato corporeo è essenziale e irrinunciabile per la loro identità.
È vero che la morte può anche rappresentare la liberazione da una condizione infelice e che l’anima continua a vivere in eterno, ma è anche vero, biblicamente, che la morte resta una drammatica lacerazione che strappa dolorosamente alla persona una sua dimensione essenziale, il corpo. Ci sarà infatti la resurrezione, che sarà resurrezione della carne, ovvero di tutta la persona, anima e corpo insieme, ricomposta nell’unità vivente voluta da Dio. Un corpo glorioso, come quello del Cristo trasfigurato e risorto; un corpo non più condizionato dai bisogni dello spazio e del tempo, ma un corpo vero e unico, il nostro.
Identità e relazione con gli altri nella pienezza
Altro errore che possiamo riscontrare è ritenere che con la morte chi godrà della visione beatifica non riconoscerà i suoi cari e non ne sarà riconosciuto, ma sarà assorbito solo in Dio. Leggiamo bene i dati biblici. Il fatto che Gesù risorto non venga riconosciuto immediatamente dai discepoli, ma solo dopo che lui ha stabilito un rapporto con loro, non dipende da una sua non riconoscibilità, ma dalla cecità spirituale dei discepoli che guardano ma non riconoscono perché non hanno fede, finché non si aprono gli occhi dello spirito. In lui, ritroveremo pienamente e senza più ombre la nostra umanità, in quel Corpo di Cristo in cui tutte le nostre differenze si porranno in comunione mantenendo le proprie identità, in un rapporto di puro amore con Colui che è Carità e con coloro che ci sono stati, nella vita, compagni di viaggio.
Il Dio dei viventi
Quanto alla vera sopravvivenza dell’uomo oltre l’esistenza terrena, Gesù la dimostra ai sadducei, che non credono ai Profeti e agli altri Scritti biblici, muovendosi esclusivamente sul loro terreno, ossia con un argomento ricavato dalla Torah: Dio si manifesta a Mosè come il Dio dei viventi, perché non «è stato» il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, ma «è» il Dio di coloro che vivono in lui (cfr. Es 3,15).
Il più grande comandamento: i farisei (Mt 22,34-40)
Altra prova è quella cui Gesù viene sottoposto dagli osservanti perfetti della Legge, i farisei con cui si confronta, e che gli chiedono: qual è il più grande precetto? Ovvero, qual è il precetto in funzione del quale esistono gli altri? Chi gli pone la domanda è uno scriba o dottore della legge, appartenente in questo caso alla corrente religiosa dei farisei, alcuni dei quali veramente innamorati della Torah.
La domanda non è oziosa, perché i precetti della Legge sono, secondo i rabbini, 613. Si tratta di un complesso di 365 precetti negativi ovvero divieti («Non fare…») e 248 precetti positivi ovvero comandi («Devi fare…»).
I 613 precetti della Legge
È facile cogliere il valore simbolico del numero 365 che corrisponde ai giorni dell’anno e quindi è un numero solare, cosmico; come a dire: tutto il creato si ritrova nella Legge, e la Legge deve essere osservata ogni giorno in tutto il tempo della vita.
Meno facile è interpretare il numero 248 per chi non sa che secondo la scienza rabbinica le parti che compongono l’intero corpo umano sono, appunto, 248, numero, quindi, antropologico, come a dire: tutto l’uomo si ritrova nella Legge, e deve osservare la Legge con tutto se stesso.
Qual è il più grande?
È logico, anzi necessario, chiedersi quale sia il centro unificante di questo enorme complesso di precetti. In realtà i precetti più grandi sono due e vanno di pari passo, l’amore di Dio e l’amore del prossimo. Gesù non inventa niente, qui; i due precetti rispecchiano la legge mosaica, Dt 6,4-5 (l’amore di Dio) e Lv 19,18 (l’amore del prossimo), come ben sapevano i rabbini.
Entrambi sono le grandi leggi da cui dipende tutto il resto, ma non pare che prima di Gesù queste due grandi leggi si pensassero unite fra loro come equivalenti. C’è anche una vena polemica in questo: i farisei ipocriti fanno professione di amore a Dio, ma non lo praticano nei riguardi dell’uomo.
Il confronto con i farisei (Mt 22,41-46)
Gesù aggiunge poi spontaneamente un’ultima controversia con i farisei, in relazione all’identità messianica. Il Cristo è solo un uomo, discendente di David? Perché allora David lo chiama suo Signore?
Matteo 22
41 Trovandosi i farisei riuniti insieme, Gesù chiese loro: 42 «Che ne pensate del Messia? Di chi è figlio?». Gli risposero: «Di Davide». 43 Ed egli a loro: «Come mai allora Davide, sotto ispirazione, lo chiama Signore, dicendo:
44 Ha detto il Signore al mio Signore: Siedi alla mia destra,
finché io non abbia posto i tuoi nemici sotto i tuoi piedi?
45 Se dunque Davide lo chiama Signore, come può essere suo figlio?». 46 Nessuno era in grado di rispondergli nulla; e nessuno, da quel giorno in poi, osò interrogarlo.
Chi è il Signore di David?
È quindi Gesù a imbastire una controversia nel tempio con i farisei: come si deve interpretare Sal 110,1 che recita «Oracolo di Jhwh al mio Signore [adonî]»?
Il salmista, che nella tradizione ebraica è Davide, chiama «mio Signore» il Messia venturo. Perciò, come può essere, il Messia venturo, semplicemente «figlio di Davide», se Davide stesso lo chiama «mio Signore»?
La controversia concerne la signoria del Cristo e quindi la sua identità: se il Messia è solo figlio ovvero discendente di Davide, perché Davide, considerato autore del salmo 110, lo chiama «mio signore»? Dunque il Cristo non è solo figlio di Davide, va ben oltre, è anche Signore di Davide.
Non c’è, qui, contrapposizione fra la concezione tradizionale del Messia / Cristo come figlio di Davide e quella di un Messia / Cristo a lui superiore, ma c’è un superamento: la discendenza davidica proviene da una origine puramente umana, ma la signoria su Davide viene da Dio.
Da questa controversia gli scribi sembrano assenti. Ma Gesù li ha ben presenti, e ne parlerà subito dopo.