Parola Sapienza Spirito. Parte prima: la trascendenza divina

La trascendenza di Dio
Foto di Nhân Nguyễn da Pixabay

Ci addentriamo adesso in un tema trasversale che percorre la Sacra Scrittura da Genesi ad Apocalisse: Parola – Sapienza – Spirito, fondamentale perché presente in quasi tutti i passi biblici.

Trovate il video dell’incontro QUI:

Nell’Antico Testamento non si trattano teoricamente grandi temi teologici, a partire dall’esistenza di Dio. Dio non viene messo in dubbio: l’ateismo è un fenomeno più moderno, non riguarda i popoli antichi. I popoli antichi si chiedevano non quale fosse il dio vero ma, eventualmente, quale fosse quello migliore per il proprio popolo o per la propria persona. Era una questione di scelta, ma non di scelta se Dio fosse o non fosse: di scelta, invece, su quale fosse il Dio migliore per la propria situazione. Noi non troviamo problemi teologici dibattuti, soprattutto nell’Antico Testamento: si danno per scontate tante cose che, al contrario, noi moderni mettiamo in discussione.

Una concezione relazionale della Divinità

Al centro c’è invece un’idea fondamentale che è il rapporto con Dio. Quale sia la natura di questo Dio non è una materia di interrogazione filosofica o teologica. Il problema è cosa fa Dio per noi: cosa fa Dio per me, cosa fa Dio per Israele, cosa fa Dio per gli altri popoli. È, quindi, una concezione relazionale più che filosofico – teologica.

Naturalmente ogni popolo ha la propria ottica. Quando la Bibbia viene tradotta in greco a partire dal III secolo a.C., qualche problematica filosofica viene fuori chiaramente, perché la mentalità greca è più teorica, speculativa: infatti ha dato luogo alla filosofia, mentre non esiste una filosofia biblica. I  problemi biblici sono pragmatici: non cosa pensare ma cosa fare, come rapportarsi con la realtà divina.

Differenza tra l’ottica greca e l’ottica biblica

Vi faccio un solo semplice esempio. In Esodo 3,14 Dio risponde a un’obiezione di Mosè all’atto della sua vocazione. Anzi, Mosè fa tre obiezioni diverse alla sua vocazione: «Ma io chi sono, non sono in grado! Ma io non so parlare! Ma tu chi sei, come ti chiami, cosa dirò ai miei fratelli? Il Dio dei vostri padri… Quale Dio, mi diranno? Qual è il suo nome?». Allora Dio rivela il suo nome, che si troverà più di 6000 volte nelle Scritture ebraiche, quindi un nome evidentemente molto importante. Come nome compare in quanto voce verbale di terza persona singolare maschile, qui invece è una prima persona e la traduzione è «Io Sono chi Sono», e sembra quasi una risposta che mette a tacere…

«Io Sono chi Sono»: ecco, i greci, traducendo nella loro lingua  e quindi ponendosi anche con un’ottica più filosofica, da questo punto di vista hanno tradotto «Io sono colui che È» = «Io sono l’Ente», con un participio presente. «Io sono l’Ente», quindi «l’Essere assoluto».

Il senso biblico

Questa traduzione però richiede una mentalità filosofica, perché nel testo ebraico invece il significato è un altro. «Io Sono chi Sono» vuol dire «Io ci sono», «Io sono qui»,« Io sono qui per voi», «Io ci sarò sempre per voi». Quindi non è un nome di natura, non indica l’Essere perfettissimo, Eterno, Infinito, eccetera. Non definisce la natura di Dio ma definisce il rapporto che ha con l’uomo: «Io sono qui», che a parer mio è anche molto più bello.

Cercando risposte alle domande che ci poniamo secondo la nostra mentalità, a volte ci dimentichiamo le cose più semplici che però forse sono anche quelle anche più belle e più importanti. La risposta di Dio è «Io sono qui», «Io sono qui per voi», «Io ci sono; contate su di me; Io ci sono»!

La trascendenza di Dio

Ora, il problema teologico indubitabile nasce dal concetto di trascendenza di Dio: perché questo Dio è trascendente, su questo non c’è dubbio, Dio non appartiene a questo mondo, è lui che l’ha creato. Il linguaggio biblico non possiede termini filosofici: noi diciamo che Dio è trascendente, col che intendiamo che va oltre tutto quello che è sensibile e visibile, che occupa spazio, che si distende nel tempo. Gli antichi ebrei, come gli altri popoli della stessa area culturale, non avevano nemmeno gli strumenti linguistici per esprimere questo concetto; però erano ben consapevoli che questo Dio creatore non apparteneva al mondo creato, era al di là, era Altro, diremmo oggi.

La Bibbia si mantiene molto distante dal panteismo, quella visione delle cose per cui tutti sono tutto e quindi se c’è un Dio siamo noi. Si confonde il Creatore col creato arrivando a una confusione di identità, a una tale identificazione che non c’è più la distanza fra il dio e la creatura.

La trascendenza di Dio: i cieli e i cieli dei cieli…

I testi biblici invece hanno ben chiara questa distinzione. L’espressione più bella per comunicare questo concetto è secondo me quella usata da Salomone nella consacrazione del tempio con questo stupore: Ma come, i cieli e cieli dei cieli non ti possono contenere, eppure tu sei qui! Infatti nell’ebraismo, in cui non si può pronunciare il nome proprio di Dio, il Tetragramma sacro JHWH, il nome di questo Dio creatore viene sostituito con delle perifrasi di rispetto, per esempio «Il Santo Benedetto Egli Sia» oppure «Hashem» (Il Nome), oppure, come qui ci interessa, «Hamaqom», il Luogo cioè «il luogo dei luoghi», il luogo che contiene tutti i luoghi e non è contenuto da nessuno. Sono modi di rappresentare questa infinita distanza di Dio.

Allora si presenta una contraddizione: se Dio è trascendente e non fa parte di questo mondo, come fa ad averlo creato e soprattutto poi a sostenerlo, a indirizzarlo, a operare nella storia? Questo problema veniva sentito dal popolo della Bibbia.

L’autonomia della natura

Guardate che dal punto di vista del rapporto con la natura il racconto di Genesi è straordinariamente moderno, perché Dio non interviene passo per passo: più volte Dio dice: «la terra germogli, le acque brulichino…». Il comando è indiretto, cioè c’è una sorta di azione, di formazione interna della materia che secondo proprie leggi e con la propria autonomia si evolve in esseri sempre più sofisticati.

Mentre nelle religioni dell’epoca, della zona ma un po’ in tutto il mondo, nelle religioni politeiste in cui gli dei erano le forze della natura divinizzata, se il dio della pioggia non interveniva direttamente facendo piovere in quel momento la terra non avrebbe germogliato; se il dio della fecondità degli animali non fosse intervenuto in quel momento gli animali non avrebbero figliato e lo stesso per la fecondità umana, con un continuo mescolarsi del Divino con il creato.

Invece nella concezione biblica la natura ha la sua dignitosa autonomia e la sua dignità autonoma: non c’è l’intervento continuo di Dio perché piova o perché venga il sole o perché… Sì, anche noi preghiamo perché piova ma in un altro modo, non con la concezione magica secondo cui se non si faceva questo e quello il Dio non avrebbe fatto questo e quello e quindi la natura sarebbe rimasta lì inerte senza dare risposte all’uomo.

La trascendenza di Dio: un problema di linguaggio

Allora, questo problema rimane, è un problema di pensiero ma anche un problema di linguaggio. Come si fa a esprimere la realtà divina che è al tempo stesso trascendente ma anche immanente? Come si fa a conciliare questa contraddizione?

Sono tre le forme di cui gli autori dell’Antico Testamento si sono serviti per esprimere il rapporto che Dio ha con il cosmo e con la storia dell’uomo: tre attributi, la Parola, la Sapienza e lo Spirito. Parola e Sapienza poi nella rivelazione neotestamentaria, quindi nel Cristo, poi saranno unite insieme nel Logos, il Verbo, la Parola creatrice e saranno riconosciute come persona della Santissima Trinità; così pure lo Spirito Santo che, presente in tutto l’Antico Testamento, è concepito come una forza che promana da Dio, una forza creatrice, una forza provvidente attraverso cui Dio crea, rinnova e guida la storia. Quindi non cerchiamo tracce della Santissima Trinità nell’Antico Testamento perché non ci sono. È questa la novità cristiana.

Noi analizzeremo queste tre linee veterotestamentarie, questi tre attributi, cercando di vedere dove ci portano.