«Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo…» (Mt 4,1-11). Inizia così l’episodio delle tentazioni secondo Matteo. Ma Gesù poteva davvero essere tentato? Da chi? E che senso ha questo episodio?
Infatti, è una «Mission impossible» per il diavolo quella di «tentare» Gesù: come poteva sperare il Tentatore per antonomasia di indurre il Figlio di Dio al peccato? Eppure, una logica c’è, se si dà alla parola peirasmòs il suo vero significato e si traduce con «prova».
L’azione dello Spirito e il cammino nel deserto
Notiamo, prima di tutto, che l’azione è divina: è lo Spirito che guida o conduce Gesù nel deserto per esservi messo alla prova prima di iniziare il suo cammino messianico. Non è certamente intenzione divina quella di farlo cadere in peccato, né ciò sarebbe neppure materialmente possibile. Quindi, che senso c’è in tutto questo? E cosa c’entra il diavolo?
Il tema dello Spirito, con cui battezzerà «colui che viene», che scende su di lui al momento del battesimo di Giovanni, che lo trasporta nel deserto per essere tentato, lega insieme i tre elementi del trittico di preparazione al ministero pubblico.
Lo Spirito che scenderà sui fedeli e che già è sceso e dimora nel Cristo è anche colui che sostiene il credente nelle prove della vita: le tentazioni fanno parte dell’esistenza e dell’esistenza cristiana, non sono un alibi per esimersi dal resistervi (o vogliamo pensare, come scrisse Oscar Wilde, che «l’unico modo per liberarsi dalla tentazione è cedervi»?). Ma non sono nemmeno uno spauracchio per cercare di evitare la vita: anche il Figlio di Dio le ha provate.
Tentazioni messianiche
Le tentazioni di Gesù non sono vere tentazioni a peccare: il Figlio di Dio non poteva cadere in peccato. Sono più sottili, tentazioni messianiche a compiere gesti spettacolari che conquistassero la popolarità. Sono le tentazioni di Israele nel deserto: la fame e la possibilità di cancellarla facendo scendere la manna, il mettere alla prova Dio e la rassicurazione miracolistica, l’adorazione di un vitello d’oro, un potere che non è Dio. I quaranta giorni di Gesù ricalcano chiaramente i quarant’anni di Israele nel deserto, ma anche i quaranta giorni e quaranta notti di Mosè (Es 24,18) nell’attesa di ricevere la legge; e proprio all’antica legge ricorre Gesù per confutare le parole del tentatore (Dt 8,3; 6,16; 6,13).
La categoria biblica della prova
Nell’insieme della Scrittura, numerose sono le prove cui Dio sottopone l’essere umano. Nell’Antico Testamento, l’episodio più emblematico è la richiesta del sacrificio d’Isacco (Gn 22,1: «Dio mise alla prova [ebraico nasah, greco peirazo] Abramo»).
Lo riprendono Sir 44,20 («nella prova fu trovato degno di fede») ed Eb 11,17: «Per fede, Abramo, messo alla prova, offrì Isacco». Non si tratta certo di indurre Abramo al peccato, ma di sottoporlo ad una prova. Ma attenzione: che bisogno Dio ha di inscenare queste verifiche? Non sa, Dio, che cosa c’è davvero nel cuore degli uomini?
Infatti: la prova non serve a Dio, ma all’uomo. Non è un test, ma una difficoltà che fa crescere, simile in questo ad una prova di atletica in cui l’atleta, esercitando sempre di più le sue capacità, si misura, si perfeziona e raggiunge risultati sempre migliori.
Abramo, in realtà, nella prova cresce: egli che rispondendo alla vocazione divina aveva rinunciato al suo radicamento nel passato per andare verso il futuro di Dio, adesso rinuncia anche al proprio futuro (il figlio della promessa, tanto amato) rimettendolo nelle mani del Signore.
Anche i quarant’anni d’Israele nel deserto hanno lo scopo di mettere alla prova il popolo e prepararlo all’entrata nella terra della Promessa, e i patimenti di Giobbe sono un crogiuolo che saggia e purifica, come l’oro, la sua fede.
Il banco di prova del messianismo
La prova a cui il Figlio di Dio è sottoposto ha come fine di mostrare la sua vera missione, non come messianismo di bassa lega (soddisfare i bisogni immediati, sfoggiare effetti speciali, o peggio ancora desiderare per sé il potere) ma come messianismo umile e paziente nella perfetta obbedienza al Padre. Non tentazione quindi, ma prova. Se il Signore permette la prova, non è per ostacolare o indurre al male l’uomo, ma per aiutarlo a vagliare e purificare la propria condotta.
Il Tentatore
Tuttavia, qui si inserisce la contorta azione diabolica che cerca di distorcere quel che Dio chiede linearmente. Il suo obiettivo è distogliere Gesù dal progetto del Padre. A Gesù che è Figlio chiede di approfittare del suo privilegio: Fa’ questo, fa’ quello, renditi facili le cose. Non è tentazione al male, ma alla faciloneria.
Gesù svela l’illusione (Mt 4,7: «Sta anche scritto: non metterai alla prova il Signore Dio tuo»), e la trasforma in occasione per manifestare la sua totale obbedienza al Padre. Obbedienza che sarà consumata nel Gethsemani e sulla croce. L’autore di Ebrei affermerà che «proprio per essere stato messo alla prova e avere sofferto personalmente, egli è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova» (Eb 2,18).
Come Lui, così noi; quante sono le prove della vita? Ebbene: ci viene mostrata la strada, rivolgersi alla Scrittura e vivere più intensamente la comunione con Lui.
L’azione diabolica
Qui, nel racconto evangelico, scopre le carte un personaggio che avevamo intuito agire oscuramente, nelle forze del male che cercavano, nei racconti dell’infanzia, di uccidere il piccolo Gesù. Adesso il Tentatore in persona, il diabolos ossia «colui che divide», entra in scena per contrastare e vanificare il progetto salvifico divino.
Aveva tentato l’antica Eva facendole vedere ciò che è proibito, il farsi Dio di se stessi, come
- piacevole da gustare (soddisfa i sensi),
- bello da vedere (soddisfa la fantasia, l’emotività)
- e desiderabile per acquistare dominio (soddisfa l’orgoglio).
Sono le stesse tentazioni che propone a Gesù in forma di prove messianiche: quelle
- di una gratificazione facile,
- di un miracolismo spettacolare,
- di un potere mondano.
In realtà Gesù, in Dio, possiede già tutte queste cose, e noi le possediamo in lui; non vi è alcun posto perché il diavolo ne occupi una parte. Quella che Gesù mostra in sé non è la fuga dal mondo, anzi è il possesso del mondo in Dio (e non nel diavolo), come afferma S. Paolo: «Tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio» (1 Cor 3,22-23).
Il Tentatore: simbolo o realtà?
Quanto alla figura del Tentatore, biblicamente non se ne può negare l’esistenza, anche se non va identificato con il personaggio dell’immaginario medievale dai piedi di capra e le ali di pipistrello. Scrisse C.S. Lewis: «Vi sono due errori, uguali e opposti, nei quali la nostra razza può cadere nei riguardi dei diavoli. Uno è di non credere alla loro esistenza. L’altro, di credervi e di sentire per essi un interesse eccessivo e non sano. I diavoli sono contenti d’ambedue gli errori e salutano con la stessa gioia il materialista e il mago».
Non diamo, dunque, soddisfazione al diavolo rifiutando di credere alla sua azione, ma neppure enfatizziamolo attribuendogli ogni genere di prodigi. La sua principale e più proficua opera è quella, nascosta, di mettere divisione nella comunità, di distogliere l’attenzione da Dio ma anche di distogliere l’attenzione dall’altro, seminare zizzania e far vedere l’altro come ostacolo e come nemico.
Angeli e demòni nella Rivelazione
La rivelazione biblica non è un atto repentino di illuminazione della mente, ma una progressiva incarnazione della Parola di Dio nel linguaggio dell’uomo e nella sua storia. È, dunque, cresciuta con il crescere delle sensibilità e delle capacità di recezione del popolo di Dio, con quella lunga attesa della infinita pazienza divina fino alla pienezza dei tempi: solo in Cristo la rivelazione è totale e definitiva.
La rivelazione è un atto di pedagogia divina commisurata alle possibilità di comprensione e di attuazione dell’uomo. Nei tempi più antichi, la necessità più stringente era che Israele riuscisse a credere in un unico Dio, immerso com’era in un oceano di popoli politeisti. Mettere in evidenza l’esistenza di angeli e diavoli avrebbe potuto confonderlo, inducendolo a credere che fossero altri dèi, anche se di minore importanza.
Nei tempi più arcaici, l’angelo è solo un messaggero (tanto significa la parola mal’ak, come pure il greco anghelos), e il termine è un nome di funzione e non di natura di cui niente rivela. Pur essendoci, come in Genesi 3,1, l’intuizione che esista un «nemico» di Dio e degli uomini, esso è solo un serpente, una creatura fatta da Dio e non altro, non un dio maligno. Il suo comportamento è quello di un satan o avversario, che però è un nome comune e non proprio; il satan di Giobbe non è ancora Satana il diavolo ma, piuttosto, un avvocato del diavolo, che mette alla prova l’uomo per saggiarne la fede.
Gli sviluppi dell’angelologia
È in scritti più tardivi, post-esilici, a partire dal libro di Zaccaria (515 a.C.), che si esprimela fede nell’esistenza di un mondo angelico: il monoteismo o fede in un unico Dio è ormai così saldo in Israele che non si deve più temere la concorrenza, nel culto, di altre divinità. Non vi è più la probabilità di fraintendimenti: solo Dio è Dio, tutto il resto è creatura. Si sta, così, sviluppando un’angelologia, e di conseguenza anche una demonologia (v. ad esempio il libro di Tobia, in cui i protagonisti umani sono affiancati da un protagonista angelico, Raffaele, e da un protagonista demoniaco, il demonio Asmodeo.
Arriviamo così ai tempi di Gesù in cui il popolo di Israele(con l’eccezione dei sadducei che ritenevano S. Scrittura solo la parte più antica, il Pentateuco) aveva accolto la rivelazione dell’esistenza di un mondo angelico e di un mondo demoniaco invisibile all’uomo.
La Bibbia, che è tutta incentrata sul rapporto tra Dio e l’uomo, è avara di particolari che ci incuriosirebbero ma che non servirebbero alla nostra fede; perciò non ci narra neppure la caduta degli angeli ribelli, ma la presuppone. La afferma in 2Pt 2,4: «Dio infatti non risparmiò gli angeli che avevano peccato, ma li precipitò negli abissi tenebrosi dell’inferno, serbandoli per il giudizio»; e in Giuda 6: «gli angeli che non conservarono la loro dignità ma lasciarono la propria dimora, egli li tiene in catene eterne, nelle tenebre, per il giudizio del gran giorno».
Entità personale
Quel che è certo è che nel Nuovo Testamento il demonio (greco daimon = genio sovrumano), chiamato diabolos ovvero colui che divide, è provvisto di una personalità e non è solo un simbolo. Sarebbe ingenuo però immaginarlo come la tradizione iconografica lo raffigura, dato che è un puro spirito, il «mal Voler che pur mal chiede con lo ’ntelletto», la mala Volontà che con la sua mente vuole solo il male, così lo chiama Dante (Purg. V, 112). Non va temuto, ma va temuta la sua azione sottile di tentazione alla divisione, alla menzogna e alla calunnia.
Per capire meglio la logica diabolica, è altamente consigliabile la lettura delle Lettere di Berlicche di C.S. Lewis, un finissimo manuale del perfetto Tentatore che, nella sua logica rovesciata (dal punto di vista del diavolo, il Nemico è Dio, e l’amore è una assurda impossibilità), diviene per noi un profondo libro di spiritualità cristiana.