Suore eroiche in Lombardia. Le suore furono molto attive negli ospedali per nascondere i ricercati e far fuggire i degenti che rischiavano la deportazione o la fucilazione. All’Ospedale di Niguarda, a Milano, suor Teresa Scalpellini e poi suor Giovanna Mosna, dell’Istituto di Carità delle Sante Capitanio e Gerosa, furono protagoniste di molti interventi in questo campo. Tramite una rete clandestina, le suore collaboravano con medici e infermiere allo scopo di assistere i detenuti politici, organizzare la loro fuga, raccogliere materiale sanitario.
Un bombardamento aereo aveva distrutto l’infermeria del carcere di San Vittore. Per questo, la divisione Ponti di Niguarda divenne dall’11 settembre 1943 al 25 aprile 1945 l’infermeria delle carceri per i detenuti politici più gravi. Era capo sala suor Giovanna Mosna, che curò i perseguitati politici inventando soluzioni di ogni genere per far fuggire gli ammalati e trasmettere messaggi. D’accordo con i medici organizzava «terapie» per ottenere temperature febbrili e aggravare i casi clinici, in modo da guadagnare tempo e preparare le fughe.
Suor Mosna rappresenta la punta dell’iceberg in un momento in cui tutte le suore sono state un esempio di carità, di intelligenza e di coraggio in difesa dei perseguitati.
Le suore infermiere negli ospedali falsificavano le cartelle cliniche. Inventavano malattie contagiose, inducevano febbri altissime, simulavano ferite sanguinolente, nascondevano i sani tra i malati di mente. A Como suor Augusta, suor Attilia e suor Cesana aiutavano molti ebrei a riparare in Svizzera. Il convalescenziario di Villa San Vincenzo era pieno di donne e di bambini ebrei, che poi passavano in Svizzera. Le suore dell’asilo San Bartolomeo a Como facilitavano diverse evasioni, tra cui quella di Enrico Mattei.
Suor Lina Manni
A Varese operò suor Lina Manni, che per trent’anni fu superiora della congregazione delle Ancelle di san Giuseppe fondata da monsignor Carlo Sonzini, un sacerdote votato alla carità di cui è in corso la causa di beatificazione. Suor Lina, insieme a monsignor Sonzini, ebbe un ruolo determinante nel salvataggio di molte famiglie di ebrei, che le autorità avevano confinato nella Casa San Giuseppe.
Suor Lina era giunta a Varese (da Colico nell’alto lago di Como) nel 1937 per mettersi al servizio della Casa san Giuseppe, più comunemente chiamata Casa famiglia. Qui svolse un’intensa attività a favore dei perseguitati, ebrei e altri che per diverse ragioni avevano bussato alla porta dell’Istituto.
Il passaggio del confine
Varese era per gli ebrei un punto di riferimento fondamentale nel loro disperato cammino verso la salvezza. Poco lontano dalla città correva la linea di confine. Una volta presi gli accordi con i «passatori», i contrabbandieri o gli «spalloni» che dietro un lauto compenso li avrebbero accompagnati in Svizzera, era indispensabile per gli ebrei trovare un luogo in cui nascondersi e aspettare il momento propizio.
Madre Lina Manni accolse per lunghi giorni gli ebrei, li confortò, li nutrì, dette loro loro speranza, ne programmò la fuga. Li dotò anche – e questo fu un elemento indispensabile – della documentazione «ariana» necessaria per percorrere la distanza tra Varese e il confine utilizzando i canali dell’Oscar (Organizzazione cattolica soccorso antifascisti ricercati), messo in piedi da una schiera di sacerdoti, e i canali di Calogero Marrone.
Calogero Marrone era il capo dell’ufficio anagrafe del Comune di Varese. Approfittò della sua posizione per fornire un gran numero di documenti falsi a molti ebrei, che grazie a lui si poterono salvare. Fu tradito, denunciato, arrestato e internato a Dachau, dove sarebbe morto.
La Casa San Giuseppe
Il carcere dei Miogni e le cantine-prigioni di Villa Concordia erano ormai pieni. Le autorità di Varese, a causa del sovraffollamento delle prigioni, decisero di affidare i detenuti ebrei alla Casa San Giuseppe. L’ordine tassativo era quello di bloccarli lì. Madre Lina approfitto della sua posizione di responsabile per ideare una serie di strategie che permise a molti detenuti di fuggire. La suora non destò mai sospetti. Invece, monsignor Carlo Sonzini, fondatore della Casa San Giuseppe, si salvò solo per l’intervento del cardinale Ildefonso Schuster. Il prelato riuscì ad ottenere il permesso di confinarlo in un Istituto di Cesano Boscone, sottraendolo all’arresto.
La famiglia Balcone
Tra le molte storie, conosciamo quella della famiglia Balcone. Dopo aver contrattato a Milano la cifra da sborsare ai «passatori» luinesi, il 10 dicembre 1943 avevano trascorso la notte in albergo ma erano stati traditi dall’albergatore. Si trattava di Angelo Balcone, il capofamiglia, ariano, la moglie Edvige Epstein, ebrea autriaca, Gabriele Balcone il figlio di 4 anni, ebreo misto, Luisa Schlesinger, amica di famiglia, leggermente claudicante, ebrea austriaca. Furono arrestati e trasferiti alla Casa San Giuseppe.
Per i coniugi Balcone e per la signorina Schlensiger non ci fu niente da fare, furono avviati ai campi di concentramento. Tuttavia Angelo Balcone dopo qualche mese fu riconosciuto come ariano e fu liberato. La Epstein passò da Auschwitz a Bergen-Belsen a Theresientstad ma si salvò. La Schelensiger fu uccisa subito a Birkenau perché la sua salute fragile non le permetteva di lavorare.
Invece, per il piccolo Gabriele Madre Lina Manni studiò un piano geniale. Gli inventò lì per lì un attacco di appendicite e il bambino fu trasportato d’urgenza all’ospedale. Il primario dottor Ambrogio Tenconi finse di sottoporre Gabriele all’intervento chirurgico, poi gli studenti universitari della Fuci guidati dal fondatore delle Aquile Randagie Giulio Cesare Uccellini, insieme a don Andrea Ghetti, finsero di rapirlo armi in pugno, e lo riportarono in casa di don Natale Motta da cui fu condotto in Brianza dal padre. Se ne parla QUI.
Alla fine della guerra, Gabriele si trasferì con la sua famiglia a Melbourne dove da adulto intraprese la professione di fotografo.
La famiglia Rossi
La famiglia Rossi stava cercando di passare il confine quando cadde vittima di un’imboscata a causa di una delazione. I genitori e i nonni riuscirono a nascondersi, ma i due fratelli Anna e Gianfranco, di 13 e 11 anni, furono catturati e rinchiusi nella Casa San Giuseppe, terrorizzati dall’idea del campo di concentramento e della fucilazione. Suor Lina Manni li esortò ad avere pazienza e inscenò un altro finto rapimento ad opera di un gruppo che fece irruzione nella Casa con le armi in pugno, finse di malmenare le suore e portò via i ragazzi. Erano salvi! Una delle suore, suor Adele, che aveva persino fatto finta di svenire, tirò un sospiro di sollievo.
Il 1944 fu ancora più difficile perché il decreto della «zona chiusa» rese ancor meno accessibile la zona del confine da cui far passare gli ebrei in Canton Ticino. Qualcosa comunque continuò a funzionare e Casa San Giuseppe continuò ad essere un’ancora di salvezza. Così fu anche per i vecchi ammalati che i nazifascisti, dal marzo del ‘44, rastrellavano negli ospedali e nelle cliniche per mandarli nei campi di sterminio. Madre Manni riuscì a compiere qualche salvataggio in extremis come quello di due anziane signore polacche che stavano per essere catturate nella casa di cura «La Quiete» di Varese e che invece fecero in tempo a trovar asilo nella Casa San Giuseppe.