Il ruolo delle suore italiane nel salvare gli ebrei dall’arresto e il trasferimento ai campi di sterminio fu di primaria importanza. Fu una forma di resistenza alle leggi inique che si attuò senza mai imbracciare armi tranne quelle della carità, del coraggio, di una opposizione pacifica. Per questo nascosero nei loro conventi ebrei e varie tipologie di perseguitati politici, feriti, talvolta, dopo la caduta del regime, anche fascisti ricercati. Le molte donne coraggiose di cui siamo venuti a conoscere il nome rappresentano centinaia di altre suore che nelle carceri, negli ospedali e nei loro istituti si sono schierate dalla parte delle vittime e di chi era nel bisogno in nome del senso umanitario e della carità. Tra queste, le suore Dorotee nel Veneto.
Suor Pier Damiana Cadorin
A Venezia, nella casa S. Filippo in sestiere Dorsoduro, dipendente dalla casa delle Suore Maestre di Santa Dorotea di Vicenza, le suore avevano un laboratorio di ricamo dove suor Pier Damiana Cadorin (al secolo Antonia), bravissima nel ricamo e nel cucito, accolse e nascose tre signore ebree, inserendole tra le ragazze sordomute del laboratorio.
Pochi giorni prima la Madre Generale dell’Istituto aveva convocato suor Pier Damiana a Vicenza per darle alcune istruzioni che non potevano essere inviate per lettera. Le chiedeva cioè di accogliere «una scrittrice ebrea» in una zona appartata della casa, in modo che le mamme dei bambini, e specialmente le ragazze sorde, definite «molto curiose», non si accorgessero della sua presenza.
Laura Lattes
Nata a Venezia nel 1893, Laura Lattes era stata insegnante al “Don Giuseppe Fogazzaro” di Vicenza fino al 1938, quando a causa delle leggi razziali dovette lasciare l’istituto. Si trasferì allora a Padova, per insegnare agli studenti ebrei allontanati anch’essi dalle scuole. Dopo l’8 settembre 1943 dovette nascondersi, trovando rifugio a Venezia, nell’istituto delle Suore Dorotee per giovani sordomute: qui, fra il novembre del 1943 e l’aprile del 1944, la sua vita si intrecciò con quella di altre due signore ebree.
Marta Minerbi e Lina Cantoni
La signora Marta Minerbi Ottolenghi arrivò per seconda, su indicazione di monsignor Giuseppe Scarpa, che l’aveva indirizzata all’Istituto delle Dorotee: come poi commentò, «le sordomute non parlano!». Suor Pier Damiana, alle implorazioni disperate della donna che ripeteva «Mi salvi, mi salvi!», rispose che non l’avrebbe abbandonata, ma avrebbe dovuto chiedere ad un’altra signora se era disposta a cederle una stanza. Ritornò dopo poco con un sorriso: «Venga pure».
Entrambe ricevettero una nuova identità: una divenne suor Andreina De Paoli, che era morta nel gennaio precedente; l’altra assunse il nome di suor Alice Bonato, una giovane studente dell’Accademia di Belle Arti che a causa della guerra era rientrata alla Casa Madre.
Su una sedia, accanto al letto di ciascuna, la superiora aveva messo gli abiti da suora da mettersi addosso rapidamente in caso di sopralluoghi notturni: un’ampia camicia di canapa, un fazzolettone triangolare da incrociare sopra la scollatura, una cuffietta bianca da notte. In caso di controllo diurno erano pronti, all’attaccapanni, una lunga veste nera dalla ricca gonna, un largo grembiule, uno scialle e una cuffia di seta con l’arricciatura in tulle, il «camuffo». Le due signore si erano dovute togliere a malincuore la vera nuziale, per sostituirla con l’anello d’argento delle suore.
A loro si aggiunse Lina Cantoni Orefice, una signora di sessantatré anni che parlava tre lingue (francese, inglese e tedesco), dipingeva e si esibiva al pianoforte con i figli Silvano, pianista, e Mario violinista. Aveva anche musicato i versi di Rabinadrath Tagore, pubblicati a Milano nel 1920, con una sua fotografia e la dedica autografa.
La fuga
Verso la metà di marzo, suor Pier Damiana venne a sapere che i nazifascisti entravano nei conventi alla ricerca di persone nascoste. Per non mettere in pericolo la vita delle ragazze sordomute, le suore furono costrette a cercare un altro rifugio per le tre signore ebree. Laura Lattes si rifugiò a Padova in un appartamento. Lina Cantoni fu accompagnata a Montepulgo, sui colli vicentini, nella casa delle suore di Maria Bambina, dove si trovava il marito con il resto della famiglia. Marta Minerbi affittò un appartamento a Venezia, sperando di avere notizie del marito arrestato. Ma il professor Alessandro Ottolenghi era stato deportato con molti gli altri ad Auschwitz, da cui non sarebbe mai più ritornato.
L’attestato
La comunità israelitica veneziana nel 1955 conferì a suor Damiana un attestato di riconoscenza per quanto aveva fatto, a nome di tutti quegli ebrei che avevano «conservato intatto nel cuore il ricordo del bene che, fra tanto male, era stato compiuto in quei tristissimi anni». Nell’aprile di quell’anno l’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane aveva conferito la medaglia d’oro a ventitré persone scelte fra le tante che avevano rischiato la vita per salvare gli ebrei. Per le numerosissime che erano rimaste fuori da questo elenco, il Comitato centrale aveva istituito un Certificato di riconoscenza.
Altre suore Dorotee
Ad Arcugnano in provincia di Vicenza le suore salvarono una signora ebrea, una violinista sessantenne, facendola passare per malata psichiatrica nella loro casa di cura. I tedeschi avevano occupato un’ala della casa. La signora mangiava solo i cibi consentiti dalla sua religione, ma quando per Natale le suore le chiesero di suonare il violino alla Messa di mezzanotte la signora acconsentì, pur trovandosi a disagio perché quel rito non le apparteneva, e pur avendo paura perché la chiesa era piena di tedeschi!
Suor Diodata Bertolo
A Sandrigo viene ricordata suor Diodata Bertolo che per 48 anni prestò servizio presso l’ospedale. Non era neppure infermiera, faceva i servizi meno qualificati: lavanderia, stireria, orto, pollaio; a tempo perso, accudiva i malati. Conosceva tutti nella zona, fin da bambini. Un giorno, nel 1944, le portarono un soldato della Repubblica di Salò, ormai spacciato. Aveva solo 18 anni, riconobbe la suora, e le chiese aiuto. Ma non voleva essere aiutato a vivere; chiedeva di morire in pace. Le confessò che aveva dovuto sparare al suo amico Cesare, partigiano, e lo aveva ucciso. Era disperato per quello che aveva fatto, e su quella disperazione si assopì. Quando si risvegliò, al suo fianco c’era suor Diodata con la mamma dell’amico che lui aveva ucciso. «Ti perdono», gli disse la madre dell’amico, rasserenandolo.
Suor Demetria Strapazzon
Nella prigione di San Biagio a Vicenza troviamo un altro Angelo delle carceri, suor Demetria Strapazzon.
Demetria Strapazzon, nata nel 1897 ad Arsié, paesino del Bellunese, era una suora Dorotea e dapprima prestò il suo servizio negli asili, poi in un orfanotrofio. Nel 1936 la Congregazione la nominò superiora delle suore che prestavano assistenza nelle carceri. Vi rimase per 34 anni, quale responsabile del reparto femminile, ma occupandosi anche degli altri. La chiamavano «l’angelo di San Biagio» e anche «la mamma dei detenuti». Camminava svelta e silenziosa portando con sé una bottiglia di acqua di cedro con la quale riusciva a rincuorare chi sotto i bombardamenti sveniva per la paura.
Nelle sue tasche c’era di tutto: immaginette sacre, ma anche sigarette, biscotti, caramelle e altro. Se le guardie o i tedeschi l’avessero trovato, le conseguenze per suor Demetria sarebbero state gravi.
Ai detenuti che mancavano di tutto procurava vestiti e viveri supplementari. Nell’autunno del 1943 si curò in particolare dei detenuti slavi, che da un anno non avevano più contatti con le famiglie. Poi si preoccupò dei partigiani torturati, cui medicava le piaghe e somministrava sedativi. Assistette i condannati a morte, trascorrendo con loro le ultime ore e confortandoli con amore materno. Qualcuno, sul punto di morire, la chiamò: Mamma! Sentendosi spiata, teneva preparata una valigetta nel caso venisse deportata all’improvviso. A fine guerra il capitano partigiano Gaetano Bressan la ringraziò con una lettera per l’opera da lei svolta «con tanto spirito di abnegazione e di cristiana pietà nei riguardi dei patrioti detenuti nel periodo della dominazione nazifascista».
Alla notizia della morte di suor Demetria Strapazzon, nel 1976, il partigiano Neri Pozza scrisse alcuni versi. L’aveva conosciuta da prigioniero politico nelle carceri di San Biagio:
«Suor Demetria, ti chiamavano la volpe
quando sventolando le gonne come vele nere
correvi di notte lungo le sezioni
portando soccorsi, e mandavi il profumo
selvatico di muschio e di zibetto
della nostra libertà»
(Albarosa Ines Bassani, Le suore della libertà, Gaspari editore 2020, p. 115).
Sono rimasti nella memoria anche i nomi di Suor Vincenza nell’ospedale di Noventa Vicentina, suor Severina nella Casa della Provvidenza a Vicenza, suor Carmelita Avigo a Schio e suor Mariangela Sori. Esse, e le altre suore, agirono prontamente con generosità e con fantasia per nascondere le persone nei modi più estrosi, ad esempio improvvisando un finto attacco di appendicite o facendo alzare la temperatura ai finti degenti.