
Una francescana che salva vite di ebrei: Suor Benedetta Pompignoli.
Lucrezia Pompignoli, figlia di Battista, romagnola, era nata a Modigliana l’8 giugno del 1876. Il 3 aprile del 1895 entra nel convento delle Suore della Sacra Famiglia del piccolo comune romagnolo, che allora faceva parte (fino al 1923) della provincia di Firenze. Il 5 novembre del 1896 prende l’abito religioso col nome di Suor Maria Benedetta. Il 26 maggio del 1913 pronuncia i voti perpetui, entrando definitivamente nella congregazione.
Si trasferisce in seguito nel convento di Firenze, di cui diviene la Superiora fino al 5 settembre del 1962, quando per l’anziana età cesserà dall’incarico. Lascerà quindi Firenze per trasferirsi a Brisighella (Ravenna), luogo in cui morirà nel 1968, a quasi 92 anni.
Stiamo adesso parlando del periodo in cui il suo istituto l’aveva destinata al convento fiorentino di Via dei Serragli come responsabile della fraternità delle Suore Francescane della Sacra Famiglia, presente a Firenze dal 1912 al 1998. La superiora si trovava a Firenze, durante la seconda guerra mondiale, nell’opera denominata «Protezione della Giovane».
Pia e Miranda Servi
In quella sede salvò due signore ebree, madre e figlia, Pia e Miranda Servi, ed è stata proprio la figlia e nipote delle due donne, Sara Cividalli, ex presidente della Comunità ebraica fiorentina e attuale Consigliera dell’Unione Comunità Ebraiche Italiane, a fare i passi per ottenerle il titolo di Giusta tra le Nazioni, perché Sara, lo riconosce lei stessa, è nata e vive grazie a lei – e grazie ad un’insegnante, Nella Bichi, che condivide con suor Benedetta lo stesso riconoscimento.
La stessa Miranda testimoniò in un suo memoriale scritto: «A Firenze dopo qualche giorno riuscimmo ad essere accolte, per l’intervento di Monsignor Sommazzi, alla “Protezione della giovane” presso le Suore della Sacra Famiglia». Proprio suor Benedetta è in quel tragico momento la superiora del convento della Sacra Famiglia, in via dei Serragli 21, a Firenze. Convento che ospita Miranda e Pia per ben due volte: il 16 novembre del 1943, per pochi giorni, e una seconda volta dal 17 marzo del 1944 al 30 luglio di quello stesso anno.
Una seconda fuga
Nel novembre del 1943, infatti, dopo alcuni giorni trascorsi nel convento di via dei Serragli, avendo saputo delle perquisizioni nel vicino convento del Carmine, le due donne preferiscono scappare. Trovano quindi rifugio in San Jacopino, nella casa della professoressa Nella Bichi, collega e amica di Miranda. Quest’ultima ricordava: «Durante i primi tempi di soggiorno in questa casa, uscivo talvolta per qualche commissione indispensabile e mi arrischiavo anche ad andare a fare qualche lezione in casa di alunni fidati, perché avevo bisogno di guadagnare».
Ma dopo alcuni mesi, temendo di essere state riconosciute (di questo le fa temere una perquisizione, svolta quando sono entrambe fuori), Miranda e la madre decidono di lasciare la casa della professoressa Bichi.
Ritorno in convento
È il 17 marzo del 1944, e le due donne si rifugiano nuovamente nel convento della Sacra Famiglia, «dove la Superiora – rammenta Miranda -, sebbene avesse molte ospiti, fra cui alcune nelle nostre condizioni, ci aprì ancora una volta le braccia».
Durante il lungo periodo di permanenza in via dei Serragli le due donne vissero momenti di grande pena e terrore, ad esempio durante la perquisizione del quartiere di San Frediano. È così che le altre ospiti del convento capiscono la reale identità di Miranda e Pia e di quelle come loro. «Non era più prudente rimanere», prosegue il racconto, «le altre famiglie se ne andarono, ma la mamma ed io, che non sapevamo dove trovare un altro rifugio, fingemmo di partire e ci chiudemmo in una stanza dove le suore ci portavano da mangiare. Non sto a descrivere la paura che avevamo tutte le volte che il campanello veniva sonato ad ore insolite, le preoccupazioni della Superiora che sapeva il suo convento sospettato e la tristezza di vivere esclusa dal mondo».
La tragedia nella tragedia
La paura crescente diviene presto la causa del crollo nervoso di Pia Servi Ajò. La figlia Miranda si prende cura della madre fino al giorno dell’evacuazione di tutte le abitazioni costruite in prossimità dell’Arno, e quindi anche del convento. Era stato il Comando tedesco a decidere l’evacuazione, dato che avrebbe fatto saltare tutti i ponti della città per rallentare l’avanzata degli Alleati. Quel giorno, il 30 luglio del 1944, grazie all’impegno di altri amici e conoscenti, Pia viene ricoverata nell’Ospedale di Santa Maria Nuova mentre Miranda trova ospitalità presso l’avvocato Cardoso.
La salvezza giunge dopo poco tempo, con la Liberazione di Firenze nell’agosto 1944. Ma poco dopo Miranda scopre che la madre era morta il 12 agosto all’ospedale, per un eccesso di calmanti somministratole per lenire l’ansia di un possibile arresto. E che anche il padre è morto nel maggio precedente. «Il 16 è arrivato in bicicletta da Roma mio fratello: e così mia madre che aveva vissuto tutto l’anno in attesa di lui, non l’ha potuto rivedere», ricorda Miranda. La sopravvissuta è in pieno dramma, ma la vita continua, anche con il conforto dell’aiuto datole da suor Benedetta e dalla professoressa Bichi nei mesi precedenti.
Alla fine di agosto di quello stesso anno, nel suo memoriale, Miranda Servi scrive su suor Benedetta: «Insieme con le altre suore ha reso meno triste la nostra reclusione ed ha assistito mia madre durante la sua grave malattia; si è comportata coraggiosamente durante una perquisizione e un interrogatorio».
Una storia nascosta
La storia delle due donne rimane nascosta per decenni, ed è la storica Marta Baiardi a ritrovare, nell’archivio della Comunità ebraica di Firenze, la testimonianza firmata da Miranda Servi. Testimonianza della quale viene poi a conoscenza la figlia di Miranda, Sara. L’8 maggio del 2018 Suor Benedetta Pompignoli viene riconosciuta dallo Yad Vashem come Giusta tra le Nazioni, e il 26 novembre di quello stesso anno, nella Sinagoga di Firenze, è avvenuta la cerimonia di consegna della medaglia ai suoi discendenti.
Fonte: https://giustiemiliaromagna.it/giusti/suor-benedetta-pompignoli/
La cerimonia nella sinagoga di Firenze

Così parla di suor Benedetta Pompignoli e della professoressa Nella Bichi il sito https://moked.it il 26 novembre 2018:
«Anteposero la salvezza di altre vite umane a ogni altra considerazione. Misero a rischio la propria incolumità e riuscirono nel loro obiettivo. Per questo sono state nominate “Giuste tra le nazioni” e questa mattina, nella sinagoga di Firenze, hanno ottenuto in memoria l’alto riconoscimento del Memoriale della Shoah di Gerusalemme, lo Yad Vashem, per chi nei mesi bui scelse coraggio e impegno… A beneficiare di questa prova di altruismo, nel pieno delle persecuzioni antiebraiche, furono l’allora trentenne Miranda Servi Cividalli e sua madre Pia Ajò Servi, nata a Siena nel 1886».
La loro figlia e nipote disse, all’atto della cerimonia di consegna del titolo di Giusto tra le Nazioni:
«È un momento importante della mia vita e io sono nata e vivo grazie a suor Benedetta e a Nella Bichi, due donne eccezionali, speciali che, a rischio della propria vita hanno permesso alla mia mamma di vivere e poi di scegliere di farmi nascere. Madri della mia mamma e mie madri per il loro essere se stesse sempre anche nei momenti più bui, madri per quanto mi hanno regalato e per quanto continuo a scoprire».
Miranda Servi, fuggitiva insieme alla madre anziana e ammalata, fece parte di questi ebrei fortunati e lasciò una testimonianza scritta, il 21 settembre 1944, ritrovata negli archivi della comunità ebraica di Firenze. È il documento che ha permesso alla figlia di ottenere il riconoscimento di Giusto tra le Nazioni alle sue salvatrici.
La cerimonia QUI.
La testimonianza di Sara Cividalli. In ricordo di due donne eccezionali

«È un momento importante della mia vita e io sono nata e vivo grazie a suor Benedetta e a Nella Bichi, due donne eccezionali, speciali che, a rischio della propria vita hanno permesso alla mia mamma di vivere e poi di scegliere di farmi nascere. Madri della mia mamma e mie madri per il loro essere se stesse sempre anche nei momenti più bui, madri per quanto mi hanno regalato e per quanto continuo a scoprire.
Io non so, o meglio, non sapevo nulla della storia della mia mamma.
Diceva: per un morto si piange, per due morti si piange, per tre morti si piange, poi c’è il silenzio. E lei è stata zitta ed io, con il mio sguardo di figlia, non l’ho interrogata, sono stata complice del suo silenzio. Desiderava che le chiedessi? Non so, a volte non sappiamo cosa realmente desideriamo. Di lei sapevo pochissimo del periodo della guerra, qualche ricordo bello di quando insegnava alla scuola ebraica dopo che lei con tanti altri docenti ed alle alunne agli alunni era stata cacciata da quella pubblica, raccontava gli scherzi che le facevano, le birbonate.
La scoperta
Non sapevo, fino a che Marta Baiardi, che ringrazio con un affetto particolare, non ha raccontato la storia della mia mamma, storia di cui era venuta a conoscenza scartabellando negli archivi della Comunità, una testimonianza della fine d’agosto del ’44, scritta dalla mia mamma subito dopo la liberazione di Firenze. Una storia dura, difficile, scarna, scritta senza smancerie e pianti. La storia dell’angoscia, del nascondersi, l’aiuto dell’amica di sempre Nella Bichi, la fuga dalla sua casa per la paura di essere stata riconosciuta, poi l’accoglienza dell’abbraccio di suor Benedetta, la protezione per lei e la sua mamma, la mia nonna Pia. Desidero leggere un pezzo di quello che ha scritto la mia mamma, non ci sono parole migliori.
Il memoriale di mamma Miranda
“È troppo intima la tragedia di cui fummo protagoniste perché possa descriverla, basti accennare a questo: sono stata rinchiusa quindici giorni con una malata che perdeva sempre più il controllo su se stessa, che nella malattia rievocava continuamente le frasi più ossessionanti della persecuzione, che aveva l’incubo che fossero danneggiati coloro che ci avevano fatto del bene, che gridava che non avrebbe più rivisto il figlio. Non fu possibile far venire un medico specialista, non era prudente ricoverarla in una casa di cura. La curai con iniezioni calmanti e ricostituenti, finché il 29 luglio venne il bando di evacuare la zona dove noi abitavamo.
Nessuno poteva accogliermi con mia madre in simili condizioni e con la prospettiva dello stato di emergenza. La mattina del 30 alle 12 scadeva il termine di evacuazione ed io alle 10 non sapevo cosa decidere. Non mi vergogno di scrivere che pensai di ricorrere al Veronal per tutte e due. Dalle 6 del mattino la mia amica Rina Davitti correva per Firenze per cercare un mezzo di trasporto, dato che la Misericordia aveva altri impegni.
Finalmente venne l’aiuto: arrivò il dottor Rochat, mandato dalla signora Silvestri, che mi fece un certificato, e la Maria Paoli mi portò il barroccino con cui stava sgomberando: poco dopo la mamma era ricoverata a Santa Maria Nuova e io trovavo ospitalità presso l’avvocato Cardoso. Purtroppo in questo ospedale la mia cara ammalata non ha avuto le cure necessarie e, mentre cercavo invano di ricoverarla altrove, il 12 agosto spirava, intossicata dalle iniezioni calmanti che le venivano continuamente somministrate. Trattenuta in casa dalla guerriglia dei franchi tiratori, ho saputo la triste notizia il 14 in malo modo”.
Due donne stupende
Un’amara liberazione, zie, zii, cugine e cugini portati via, il padre morto di tifo. Restata sola con il fratello che pochi giorni dopo è arrivato da Roma. Eppure la vita è ricominciata, la mia mamma si è sposata e, dopo un po’ sono nata.
Sono cresciuta nel silenzio, silenzio del quale, ora, mi sento corresponsabile.
Donne stupende hanno salvato la mia mamma, di suor Benedetta ho appreso dai ricordi delle consorelle più anziane e che mi ha riferito suor Daniela, l’attuale madre superiora che ringrazio. Una donna, se mi è concesso dirlo, libera nel pensiero e nell’azione, fuori dall’ordine, capace di decisioni autonome, di prendersene la responsabilità, e anche allegra e pronta al riso. Una donna con occhi penetranti e allo stesso tempo gioiosi, una donna che era madre, non solo per il titolo che le apparteneva.
La signorina Bichi
E Nella Bichi? La signorina Bichi, come sempre l’ho chiamata, la professoressa Bichi, storica insegnante dell’allora ginnasio Machiavelli, lei che fino a che è vissuta è stata presente nella mia vita, lei che è stata sempre accanto alla mamma con la sua pazienza rude e priva di smancerie. Alla signorina Bichi tra l’altro devo l’unica immagine, sensazione, che ho della mia nonna Pia, una volta mi disse “la tua nonna era dolce e buona e ti avrebbe voluto tanto bene”. Molto mi ha insegnato, oltre a risentirmi il greco, il suo sguardo era sempre attento a chi incontrava, anche ai lavavetri che un tempo stavano ai semafori fiorentini.
La signorina Bichi amava gli animali, mi piace pensare che la farebbe sorridere conoscere la strada che ci ha portato qui oggi. Tre anni fa è arrivato da me un cane maschio, adulto, scelta che non avrei mai fatto. Quel cane, Tito, è stato poi in vacanza, per due settimane, da Isabella e Jacopo Treves, andava al lavoro con loro e con la loro cagna Vega, Raffaele Favilli, un loro collega chiese se avevano preso un altro cane, “no” rispose Jacopo, dando una risposta un po’ assurda “lui abita in Via Bovio”.
Raffaele allora ricordò che da piccolo andava spesso con la Nella, proprio in Via Bovio a trovare una signora ebrea. La mia mamma. Un invito a cena mi ha permesso di conoscere Raffaele di parlare di quell’affetto che avevamo in comune e mi ha fatto nascere il desiderio di fare la domanda di riconoscimento di Giusto tra le Nazioni per chi aveva salvato la mia mamma. E quindi eccoci qui oggi perché le cose non accadono mai per caso e voi non siete qui per caso…
L’importanza di non tacere
Il silenzio a cui la mia mamma mi ha condannato, a cui mi sono condannata non chiedendo, è atroce. Oggi, per la prima volta, ho parlato di cose di cui non ho mai nemmeno accennato, della malattia della mia nonna. Un peso enorme da quando, circa dieci anni fa, ho letto la testimonianza trovata da Marta. Non permettete al segreto, al di nascosto di acchiapparvi, Hannah Arendt ha detto che ciò che non è nominato è condannato a ripetersi all’infinito. Se qualcosa o qualcuno vi fa del male, non tacete, non cercate di mettere sotto silenzio quello che accade. Per prima cosa nominatelo a voi stessi, a voi stesse, è il primo passo e poi cercate una persona autorevole con cui parlarne.
Noi ebrei diciamo di chi non c’è più: che il suo ricordo sia di benedizione. Se non starete in silenzio, se non vi volterete vedendo la sofferenza vostra ed altrui il ricordo di Nella Bichi e di suor Benedetta sarà una benedizione».
Sara Cividalli, Consigliere UCEI (26 novembre 2018)
Fonte: https://moked.it/blog/2018/11/26/nella-suor-benedetta-segno-del-coraggio/
Un monumento alla religiosa francescana è stato inaugurato a Modigliana, in provincia di Forlì Cesena, suo paese di origine..