Suor Antonia Antoniazzi è una delle moltissime suore che nei nove mesi di occupazione nazista di Roma rischiarono la vita per mettere in salvo gli ebrei. Fra il 1943 e il 1944, un notevole flusso di gente cercò rifugio presso i conventi. Quando gli ebrei dichiaravano di volersi spostare perché si rendevano conto di mettere in pericolo anche le suore, la normale risposta era quella esemplare data da una suora Maestra Pia Filippini: «Noi seguiremo la vostra sorte, rimanete».
A Roma nel 1943-44 vi erano 475 case religiose femminili. Di queste, circa 150 offrirono ospitalità a ebrei e ricercati. Oltre 4.400 ebrei erano nascosti a Roma in strutture religiose, in maggioranza presso istituti di suore: alcuni per pochi giorni, altri per mesi, nove e anche più. Molte superiore non attesero indicazioni per riceverli, altre aspettarono autorizzazioni da parte di sacerdoti in contatto con la Santa Sede, soprattutto quando era in gioco la clausura.
Gli istituti ospedalieri riuscivano a camuffare i ricoverati da pazienti, le scuole cattoliche li spacciavano per allievi, collegiali o collaboratori laici o religiosi; gli istituti assistenziali li facevano passare per poveri o malati, ecc. Talvolta, i religiosi spacciavano gli ebrei per confratelli o consorelle; per questo, gli ebrei dovevano imparare le preghiere, e persino indossare l’abito religioso o tenerlo a portata di mano per poterlo indossare in caso di perquisizioni. Quando i rifugiati non si potevano facilmente mimetizzare, come gli adulti nelle scuole o collegi, si nascondevano.
Non mancò neppure la fantasia e l’ingegno: le suore Compassioniste di Maria «accolsero sessanta signore ebree con le figlie, regolarmente registrate come suore, con nomi convenzionali ben pensati e capaci di pregare come le altre».
Suor Antonia Antoniazzi
Madre Antonia Antoniazzi delle Suore di Nostra Signora di Namur, per salvare una famiglia di ebrei ospite, minacciata di delazione dal custode filofascista del convento, mandò addirittura un prete a minacciare quest’ultimo di scomunica. Diceva: «Non ho fatto niente di più di quello che avrebbe fatto chiunque altro. In quei momenti non si pensava al pericolo, tiravi avanti con quel poco che potevi fare. La gente aveva bisogno di aiuto, questa era l’unica cosa che importasse, inoltre, noi non avevamo una famiglia o dei dipendenti di cui preoccuparci. Come gente di fede, potevamo rischiare più di altri».