Suor Andreina 3. La missione a Yacuíba. L’aiuto ai malati.

Suor Andreina con la sottoscritta…

In questa terza parte del suo racconto, suor Andreina ci porta a Yacuíba, in Bolivia, dove rimane 15 anni. Oltre a occuparsi dei bambini della scuola, aiuta i poveri trasportando i malati con una camionetta i malati all’ospedale, incappando anche in epidemie di poliomielite e meningite…

Il racconto di suor Andreina: a Yacuíba

«Dal 1963 fui finalmente di nuovo in Bolivia, a Yacuíba, per costruire una nuova casa con altre tre suore.

È qui che ho svolto quasi tutti i miei anni di missione in maniera pressoché ininterrotta fino al 1978.

Eravamo quattro sorelle; la superiora era pratica di scuola, le altre facevano cucito ed insegnavano alle giovani a divenire sarte; io seguivo l’asilo. Dall’asilo abbiamo cominciato poi anche con le elementari, ma con difficoltà, perché la gente non poteva pagare la scuola.

Chiedemmo allora lo stipendio allo Stato. Ci consigliarono di andare a La Paz per ottenerlo e là un impiegato cattolico ci fece ottenere quello che desideravamo.

Fu un trionfo. Accoglievamo tutti, ricchi e poveri. Fu una Grazia, il Signore ci stava benedicendo.

Con i genitori il 24 giugno di ogni anno, per San Giovanni si vendeva da mangiare. Noi facevamo le tagliatelle col pollo, i genitori cucinavano prodotti casalinghi locali e si guadagnava. Facevamo tagliatelle con 150 uova.

Si ripeteva l’evento per due o tre volte l’anno e in questo modo ci finanziavamo.

Per la costruzione del nuovo collegio il vescovo ci fece ottenere l’aiuto dell’“Adveniat”, un’associazione cattolica tedesca. Il nostro progetto fu redatto dalla commissione mista argentino-boliviana del “ferrocarril”, ma gli ingegneri mi dissero che non ce l’avremmo mai fatta.

All’inaugurazione delle prime aule ricordo che l’ingegnere intervenuto commentò: “Veramente ha avuto molta fede e con l’aiuto del Signore ce l’ha fatta!”.

Quando ho lasciato la missione di Yacuíba, nel collegio c’erano 1500 alunne.

Quello fu il tempo più bello della mia missione perché, oltre alla scuola, aiutavo i poveri.

Con la camionetta

Con la camionetta donataci dall’“Adveniat” portavo i malati a Tartagal, all’ospedale di frontiera argentina che doveva ospitare anche i boliviani.

La prima volta che portai un malato era un boscaiolo cui un tronco era caduto sulla gamba. A Tartagal  non poteva essere operato, ma con il medico dell’ospedale trovammo un aereo di turisti che lo imbarcò per farlo operare a Salta. Lì lo curarono ed il boscaiolo non perse la gamba. Il medico di Tartagal aveva studiato a Cuba ed era persona sensibile.

Quella volta la carità cristiana e la bravura del medico salvarono la gamba di quell’uomo.

Io ero decisa, avevo la certezza che Dio mi avrebbe aiutato e aperto le porte ed effettivamente devo dire che non mi ha mai tradito.

Ero piena di gioia ed ero di stimolo a chi mi vedeva; compivo azioni audaci e fraterne, colme di carità.

Quella del boscaiolo, dopo l’intervento sul petto infetto del campesino a Ivu, fu la mia seconda pazzia.

Ma ne ho fatte troppe.

Una volta un uomo si era bruciato ed era a rischio amputazione.

Insieme ad un pastore protestante passammo la frontiera; a Tartagal trovammo carità ed anche quest’uomo a Salta non perse le gambe.

Avevo la fiducia nel Signore che mi avrebbe aiutato.

Un’altra volta una bambina cadde dal tavolo di casa e non camminava più.

La caricai sulla camionetta e la portai in Argentina a Tartagal: lì scoprirono che aveva in realtà la poliomelite. Subito ordinarono la chiusura delle frontiere con la Bolivia e mi trovai in grandissima difficoltà.

In realtà io avevo passato il confine con in mano un certificato di frattura, ma venni accusata di aver introdotto la poliomelite in Argentina e di aver causato la chiusura della frontiera. Il capitano che mi interrogò al confine fu durissimo con me. Chiesi allora che mi portassero l’originale del certificato medico di frattura che avevo dato a Tartagal e questo mi salvò.

Ci rimise purtroppo il medico che aveva firmato il referto, perché ebbe una sospensione dal servizio di tre anni.

La poliomelite causò la morte di una trentina di persone.

Un’altra volta ancora arrivò al collegio all’una di notte un bambino che aveva ricevuto un calcio in testa da un cavallo.

Era periodo di carnevale e il dottore non c’era perché era ubriaco. Con un vicino che poteva guidare l’ambulanza lo portai a Tartagal dove trovammo il famoso medico che aveva studiato a Cuba. Pregai col babbo tutta la notte, durante l’operazione. Al mattino successivo il bambino si era risvegliato: il medico si mise a piangere, mi prese le spalle e mi disse: “Ce l’abbiamo fatta!”.

Fu una combinazione che quella notte di turno c’era lui. Qui c’era la mano del Signore.

Accadde anche che passai la frontiera con un moribondo sulla camionetta.

Avevo portato a Tartagal una persona che stava molto male. L’avevo lasciato con la moglie e la diagnosi era stata epatite e meningite. Tornata a casa cominciai però a sentirmi male anch’io. Mi aveva contagiata. Tornai allora a Tartagal per farmi curare e là mi lavarono il sangue con le flebo.

Mentre ero in ospedale l’uomo si aggravò e chiese di me. Stava morendo quando lo vidi e non riusciva a dire quel che voleva. Lo imbeccai: “Vuoi tornare a casa dai tuoi figli?”.

Il medico mi disse che non ne voleva sapere niente.

Decisi allora di caricare il moribondo sulla camionetta. Alla frontiera mi venne la paura di far passare un morto senza autorizzazione; pioveva e al controllo militare dissi solo che avevo un malato, dopodiché accelerai per arrivare rapidamente allo spazio libero. Giunsi al collegio sotto la pioggia mentre le suore facevano gli esercizi spirituali. Mi dissero: “Stiamo meditando sopra la morte”.

Continuai allora da sola con la camionetta per portare l’uomo a casa sua, ma ormai quasi alla meta affondai nel fango; per fortuna vennero dei vicini ad aiutarmi con le pale ma, appena videro l’uomo, si fecero tutti il segno della croce. Mi aiutarono perciò a liberare la camionetta e lasciai l’uomo, che ormai era deceduto, con loro. Alla frontiera il giorno dopo, quando tornai all’ospedale per continuare le cure, mi accusarono di aver portato un morto, ma io risposi che era solo grave. A Tartagal infine mi lavarono il sangue e tornai guarita a casa.

Nella mia vita missionaria non ho solamente insegnato e aiutato i malati; ho fatto anche catechesi ai soldati, perché ero cappellano militare.

Ricordo la prima volta che entrai in caserma erano tutti in fila sull’attenti.

Seppi che molti dovevano essere totalmente catechizzati e tanti di loro accettarono la fede e la vita cristiana.

Il giorno della prima comunione, il loro comandante, molto severo, straordinariamente accettò anche di essere comandato da me di servire cioccolato ai suoi soldati.

Fu una cosa eccezionale, perché era noto tra i suoi uomini per l’estrema durezza di carattere».