Viaggio nella Bibbia. La sofferenza di Israele (Esodo 1)

Sofferenza di Israele
Israele in Egitto di Edward Poynter (1867) – Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=2105966

La sofferenza di Israele è grande in Egitto. L’autore del libro della Sapienza (cronologicamente l’ultimo dell’Antico Testamento, composto verso il 50 a.C.), nella sua riflessione sul significato delle vicende dell’esodo, ha parole durissime per gli egiziani:

Sap 19,13 essi soffrirono giustamente per la loro malvagità,
avendo nutrito un odio tanto profondo verso lo straniero.
14 Altri non accolsero ospiti sconosciuti;
ma costoro ridussero schiavi ospiti benemeriti.
15 Non solo: ci sarà per i primi un giudizio,
perché accolsero ostilmente dei forestieri;
16 ma quelli, dopo averli festosamente accolti,
poi, quando già partecipavano ai loro diritti
li oppressero con lavori durissimi.

Anche se non ne fa il nome, il grande peccato di Sodoma, secondo questo passo, è la violazione del diritto del forestiero all’ospitalità, il trattarlo come merce e non come persona (Gn 19). Si parla di sconosciuti, ridotti a cliché senza averli saputi apprezzare come persone. Ma il peccato degli egiziani è peggiore, perché ha ridotto ad oggetti, privandoli dei loro diritti, gli stranieri già benevolmente accolti e graditi. La paura ha effetti terribili su chi ha una cattiva coscienza. Oppure, la paura costituisce un alibi, un pretesto per attaccare: vediamo accadere anche questo, nella vita delle persone come dei popoli.

La sofferenza di Israele

Ne deriva un gravame enorme per Israele, quello della servitù. Gli storici contemporanei, più che di schiavitù, parlano di costrizione a compiere lavori di corvée.

La preoccupazione del nuovo re, che “non conosceva Giuseppe”, è che la popolosa nazione israelita avrebbe potuto sfruttare una situazione di guerra per lasciare l’Egitto. Voleva che rimanessero. Le interpretazioni più comuni della frase “Non conosceva Giuseppe” sono che il re non aveva una relazione personale con Giuseppe, che non era a conoscenza di ciò che Giuseppe aveva fatto, o che non si sentiva grato per questo. Tuttavia, il senso migliore è che la frase esprima non uno stato di non conoscenza o riconoscenza personale, ma piuttosto il non riconoscere, cioè il non onorare il sostegno incondizionato del faraone precedente a Giuseppe e alla sua famiglia.

Questo riconoscimento speciale includeva il diritto alle provviste da strutture ufficiali, e l’esenzione dal prestare opere di corvée, concessione che il faraone più recente, invece, annulla. In Egitto, il lavoro di corvée era imposto, almeno in teoria, a quasi tutti gli egiziani, eccetto quelli dichiarati immuni dalle carte reali. Gli egiziani si sarebbero risentiti dell’esenzione degli israeliti dal lavoro di corvée, così come di tutti gli altri privilegi, soprattutto man mano che diventavano più numerosi. 

Schiavitù o servitù?

Il termine עֶבֶד (ʿeved, plurale עֲבָדִים / ʿavadim), usato nel testo biblico, si riferisce agli schiavi, cioè agli individui che sono di proprietà di qualcuno, ma è anche un termine relazionale che indica la sudditanza di qualcuno a qualcun altro. Ad esempio, Ioab, servo di David, è suo cugino (2 Sam 18,29), e Naaman, servo del suo re, è il comandante dell’esercito di Aram (2 Re 5,6), non certo lo schiavo. Il termine viene anche utilizzato per designare la relazione tra Mosè e Giosuè con il Signore nell’espressione עֶבֶד י־הוה (ʿeved YHWH). Inteso in questo modo, il significato della frase nel Deuteronomio “Eravamo schiavi del faraone in Egitto” potrebbe benissimo essere “Eravamo sudditi del Faraone in Egitto”. La condizione, comunque, è gravosa.

Una sofferenza che raffina

Un’esperienza che però ha portato alcuni frutti. Scriveva R. Joseph Beer Soloveitchik (1903-1993) nei suoi commenti alla Torah pubblicati in Mesoras Harav (Devarìm, p. 89), riguardo al comandamento di amare lo straniero:

«L’esperienza della servitù d’Egitto è alla base della moralità dell’ebreo. Se mi chiedessero cosa è che caratterizza la moralità ebraica, risponderei con una sola parola in yiddish: rachmanus. La traduzione con le parole misericordia, compassione, simpatia o empatia non catturano il suo vero significato. 

Rachmanus si riferisce ad una attitudine eccezionalmente affettuosa e calorosa di una persona nei confronti di un’altra. La parola rahamìm in ebraico deriva da rèchem, grembo, e significa l’amore di una mamma per il suo bambino. Il fatto che in Egitto gli ebrei furono soggetti a ogni tipo di abuso e umiliazione, il fatto che furono trattati come degli oggetti, e non persone, ha generato nel popolo ebraico una speciale sensibilità e affettuosità nei confronti del prossimo.

La nostra straordinaria sensibilità nei confronti delle vedove e degli orfani  è testimonianza della nostra comprensione e capacità di immedesimarsi nelle sofferenze degli altri. Questo non sarebbe mai successo senza il nostro soggiorno in Egitto. Senza l’esperienza della schiavitù saremmo rimasti grossolanamente insensibili e senza sapere cos’è la sofferenza. Questo è il motivo per cui ogniqualvolta la Torà parla del nostro dovere di rispettare i sentimenti degli altri, particolarmente di coloro che sono soli e indifesi, menziona la nostra servitù in Egitto».

Non faccio commenti.

Per quanto riguarda il tema della sofferenza, banalizzando enormemente tutto questo, si potrebbe dire con la sapienza popolare: Non tutto il male vien per nuocere. Finché di tratta di una sofferenza da cui poter imparare qualcosa, da cui poter essere educati, affinati, si può anche dire. Ma purtroppo c’è di più.