
Il romanzo Olocausto di Gerald Green, pubblicato nel 1978, è tratto dalla sceneggiatura dell’omonima serie televisiva (tra gli attori, Meryl Streep) che dipinge un vasto e demoralizzante affresco delle vicende della Shoah, come più propriamente, in ebraico, si definisce il genocidio degli ebrei.
Pur essendo immaginari, i personaggi principali del romanzo narrano storie-tipo della tragedia che veramente piombò sugli ebrei tedeschi ad opera dei protagonisti storici come Heydrich, Himmler, Eichmann. Quella che si sviluppa è una narrazione a due voci che si alternano in una sorta di diario parallelo: quella di Rudi Weiss, il figlio più giovane di una raffinata famiglia ebrea di Berlino, e quello di un arrampicatore sociale «ariano», Erik Dorf, semplice figlio di fornaio che fa invece carriera nelle SS collaborando alla programmazione sempre più efficiente e discreta della eliminazione totale di un popolo, mai chiamata col suo nome, sempre con eufemismi, come «reinsediamento», «trattamento speciale», «disinfestazione».
Il «trattamento speciale»
Sì, «trattamento speciale» (non vi ricorda qualcosa di contemporaneo, questa espressione piena di ritegno?). Una sorta di pudore, oltre che di prudenza, genera questa omertà. Nessun problema etico, solo problemi di efficienza: come eliminare in breve tempo e con poca spesa 11 milioni di persone, e per di più in gran segreto? «Dobbiamo cercare metodi più efficienti per portare a termine questo lavoro», così Himmler rimprovera i suoi collaboratori. Bisogna pensare ad altro, dinamite, iniezioni, gas. Col monossido di carbonio i risultati non sono buoni. Meglio lo Zyclon B, «che è di facile uso».
Il «lavoro» non è facile: «I bulgari, per esempio… ci hanno sfidati e hanno disperso e nascosto i loro ebrei. E gli italiani continuano a fare delle difficoltà, rifiutando di cooperare, mandando gli ebrei in conventi e monasteri e nelle campagne». Nessuno scrupolo: «Io sono parte della causa, della grande campagna per cambiare l’Europa… Ciò che facciamo è un atto morale, un imperativo storico». È la banalità del male di cui parla Hannah Arendt, fatta non di mostri disumani ma di persone mediocri che amano la famiglia e non si permetterebbero di infrangere la legge, ma divengono ingranaggi di un disegno perverso. «Il male – direbbe C.S. Lewis – spesso ha bisogno solo di servi sciocchi».
Il diario di Dorf termina bruscamente con queste parole, prima del suicidio: «Diranno molte cose terribili su di noi. Ma non potranno mai macchiare la nostra fondamentale onestà, il nostro amore per la famiglia, la patria, il Führer». Un romanzo di grande spessore psicologico, da leggere con tristezza: per non dimenticare.
Potete vedere la serie televisiva QUI, QUI, QUI e QUI.
Tolkien e il nazismo

Erroneamente si sente classificare Tolkien come filonazista: nessuno è mai stato più calunniato.
Quando nel 1938 la casa editrice Rütten & Loening manifestò l’intenzione di pubblicare il suo «Hobbit» in tedesco, con l’intenzione di strumentalizzare l’interesse dell’autore per la mitologia nordica, preventivamente gli inviò una lettera chiedendogli se era di ascendenza ariana. Questa richiesta infuriò lo scrittore, che scrisse:
«In ogni caso, rifiuterei con forza che qualsiasi dichiarazione di questo tipo apparisse stampata. Ho molti amici ebrei, e sentirei di insinuare in qualche modo di aver sottoscritto quella dottrina razzista del tutto perniciosa e priva di base scientifica».
Infatti, Tolkien era filologo, e conosceva molto bene le origini delle lingue indoeuropee e la stoltezza di una presunta appartenenza ad una razza «ariana»:
«Temo di non aver capito chiaramente cosa intendete per ariano. Io non sono di origine ariana, cioè indo-iraniana; per quanto ne so, nessuno dei miei antenati parlava indostano, persiano, gitano o altri dialetti derivati. Ma se volevate scoprire se sono di origine ebrea, posso solo rispondere che purtroppo non sembra che tra i miei antenati ci siano membri di quel popolo così dotato. Non posso tuttavia, trattenermi dall’osservare che se indagini così impertinenti e irrilevanti dovessero diventare la regola nelle questioni della letteratura, allora manca poco al giorno in cui un nome germanico non sarà più motivo di orgoglio».
Tre anni dopo, in una lettera al figlio Michael riconosceva apertamente il suo risentimento per Hitler:
«quel dannato piccolo ignorante sta rovinando, pervertendo, distruggendo, e rendendo per sempre maledetto quel nobile spirito nordico, supremo contributo all’Europa, che io ho sempre amato, e cercato di presentare in una giusta luce».
Che dire di più?