Le nozze di Cana: Sei idrie vuote

Sei idrie vuote
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Nella scena del banchetto nuziale di Cana giacciono sei idrie di pietra, vuote. La loro capacità sarebbe enorme: ciascuna può contenere da 80 a 120 litri di acqua, quindi da 480 a 720 litri… una riserva idrica esagerata bastante per un reggimento. Se non che, si scopre che sono vuote. Così grandi e così inutili! La scena è paradossale.

Le sei idrie

Le idrie, grandi giare sono sei, numero che rappresenta nel pensiero giudaico il mondo presente, e sono vuote. Ognuna di esse realizza il numero 6: ciascuna contiene due o tre metrete = 1 + 2 + 3; o, se vogliamo, 2 X 3 = 6 (Gv 2,6). Tradurre l’espressione della loro capacità in litri, come vedete, fa perdete ogni senso della frase. Oltre tutto, fra 80 litri e 120 litri c’è una bella differenza, come è possibile una simile imprecisione? Il fatto è che il significato dei numeri, nella Bibbia, è solitamente simbolico.

Dunque, le idrie stanno lì, inutili. Ma la loro staticità sta per entrare nel dinamismo del Cristo. Per capire meglio la complessa struttura del segno delle nozze di Cana, e la sua portata nel contesto del IV Vangelo, notiamo che le nozze di Cana condivideranno molti elementi con la scena in cui tornerà la Madre di Gesù, ai piedi della croce. I due episodi si corrispondono,  perché solo in entrambi

  • figura Maria, designata semplicemente come la “madre” (2,1.3.5.12; 19.25-27) ed interpellata con il vocativo Gynai, Donna (2,4; 19,26);
  • c’è un rapporto fra l’ora non ancora arrivata (2,4) e l‘espressione a partire da quell’ora (19,27), che è in Giovanni l‘ora della croce – resurrezione;
  •  si possono riscontrare l’antitesi tra il vino buono nelle nozze (2,9 s.) e il vino acido dato al crocifisso (19,29) …
  • e l’antitesi tra l‘acqua chiusa nelle sei giare (2,6-9) e l‘acqua che sgorga liberamente dal costato trafitto di Gesù.

Il numero 6

Il numero 7 – 1, applicato alle idrie inizialmente vuote, evoca chiaramente l‘imperfezione, l‘incompiutezza dei riti di purificazione dei Giudei (v. 6): non in quanto realtà cattiva, ma in quanto realtà solo incoativa, iniziale, che attende la propria perfezione.

Ma insomma, due o tre?

Proprio al centro del brano si trova, a proposito del contenuto delle sei idrie, l‘espressione apparentemente vaga e imprecisa anà metretas dỷo e treîs (ciascuna due o tre metrete) dove la parola anà, ambigua, significa “ciascuna” in senso distributivo, ma anche “verso l’alto”. Per cui, come frequentemente avviene nel IV Vangelo, il termine deve essere inteso non nell‘uno o nell‘altro senso, ma nell’uno e nell’altro, venendo ad indicare il passaggio dal piano imperfetto e incoativo delle realtà naturali (vv. 1-6) a quello della rivelazione perfetta, delle realtà dall’alto (vv. 7-12). Il sintagma “due o tre” non esprime dunque incertezza, ma il passaggio dalla incompiutezza (tre meno uno) al compimento, ovvero da ciò che è un simbolo (il vino che viene a mancare) a ciò che viene simboleggiato (il vino buono).

Fino in alto

Inizialmente vuote fino in alto, le sei giare di pietra (lithinos, hapax giovanneo) evocano le tavole della Legge cui corrisponde il cuore di pietra in Ez 36,26 ed anche la pietra da cui Dio fa scaturire l‘acqua della salvezza. Sono perciò caricate di un simbolismo di non – compimento, come di matrici in attesa di gestazione (Marc Girard). Al culmine della narrazione, i servitori ricevono l‘ordine di riempirle d‘acqua fino in alto (v. 7). Ai vv. 8-9, essi versano e quindi liberano il contenuto dapprima rinchiuso nelle giare: l‘acqua viva evoca il dono della vita eterna. Si comprende meglio, allora, il rapporto tra l‘episodio di Cana e l‘acqua e il sangue che, prima racchiusi nel corpo materiale di Gesù, si mettono a scorrere liberamente per effetto del colpo di lancia del soldato (19,34).

Le idrie di pietra destinate alla purificazione dei Giudei simboleggiano insomma la prima alleanza con il suo carattere di incompiutezza. Ma la storicità di questo dettaglio è stata confermata dalla scoperta archeologica di una cava presso Cana, da cui si estraeva la pietra con cui si fabbricavano vasi che, secondo il trattato mishnaico Kelim, non trasmettevano l‘impurità.