
«Venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi con i discepoli, ma tutti avevano paura di lui, non credendo ancora che fosse un discepolo».
Il verbo greco kolláo significa incollarsi, appiccicarsi, aggrapparsi, unirsi saldamente. Saulo a Gerusalemme cerca la Chiesa con ardore ma trova diffidenza, e con buona ragione. Era stato il loro persecutore…
Ma Barnaba no, Barnaba gli dà fiducia. Barnaba si fa garante per lui. È un levita e viene da Cipro. Lo abbiamo già conosciuto nel contesto della comunione dei beni della primitiva Chiesa di Gerusalemme, quando vende un campo e devolve alla comunità il ricavato (Atti 4,36-37). Si chiama Giuseppe ma lo chiamano Barnaba: il suo soprannome dovrebbe significare in ebraico “figlio della profezia”, ma è tradotto come “figlio della consolazione”. È una figura di mediatore e come tale si comporta:
«Allora Barnaba lo prese con sé, lo presentò agli apostoli e raccontò loro come durante il viaggio aveva visto il Signore che gli aveva parlato, e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù. Così egli poté stare con loro e andava e veniva a Gerusalemme, parlando apertamente nel nome del Signore e parlava e discuteva con gli Ebrei di lingua greca; ma questi tentarono di ucciderlo».
È quello che Saulo vuole: poter parlare liberamente del Cristo. È una persona che, ripeto, non è un fanatico, ma non conosce o non tollera le mezze misure: abbracciata una via, vi si slancia fino in fondo. Così si attira nuovamente la persecuzione degli ebrei di lingua greca. Sono i suoi, quelli della sua cultura, e cercano di ucciderlo. Nuova fuga. «Venutolo però a sapere i fratelli, lo condussero a Cesarea e lo fecero partire per Tarso». Lo rispediscono, per così dire, al mittente: Saulo sta mettendo in pericolo anche loro. Dopo Damasco, anche Gerusalemme gli chiude le porte. A Tarso Saulo resterà circa dieci anni.