I Santi Pietro e Paolo sono due figure colossali che meriterebbero commemorazioni separate, ma la Chiesa li ha voluti liturgicamente unire come in un abbraccio. Persone diversissime fra loro, il pescatore di Galilea ed il colto cittadino romano, hanno ognuno a suo modo contribuito a costruire la Chiesa – istituzione e carisma, ebrei e gentili, schiavi e liberi – e ne rappresentano la totalità nell’unità.
Qui mi limiterò a trattare un aspetto della figura di Simone detto Pietro, il primato ricevuto da Cristo come ruolo di servizio nella Chiesa.
Due sono i passi fondamentali che esprimono il conferimento di questo primato: Mt 16,18-19 e Gv 21,15-17.
Il primato di Pietro
In Matteo
«E Gesù gli disse: “Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli”» (Mt 16,17-19).
Il segno della pietra (da cui il nome Pietro) e il segno delle chiavi (che aprono e chiudono il Regno) sono le immagini di cui si serve Gesù in Matteo per asserire il primato di Pietro sulla Chiesa. Il nome aramaico Kepha (Pietra) è nome comune e non si usava per le persone. Non avrebbe senso che Gesù cambiasse il nome di Simone in Kepha (Roccia) e poi volesse dire che però tale Roccia era solo Lui. Pietro è roccia in senso secondario, derivato; ma l’intenzione espressa nella frase è ovvia.
Il significato è chiarissimo. Non vedo come si possa negare che ci sia stato il conferimento di un servizio di governo a Simone detto Pietro.
L’episodio nel film Gesù di Nazareth di Zeffirelli: QUI.
In Giovanni
«Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?”. Gli rispose: “Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene”. Gli disse: “Pasci i miei agnelli”. Gli disse di nuovo, per la seconda volta: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami?”. Gli rispose: “Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene”. Gli disse: “Pascola le mie pecore”. Gli disse per la terza volta: “Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?”. Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: “Mi vuoi bene?”, e gli disse: “Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene”. Gli rispose Gesù: “Pasci le mie pecore”» (Gv 21,15-17).
In Giovanni, Gesù si serve l’immagine del Pastore e del gregge. Anche qui, è innegabile la funzione di guida che viene conferita a Pietro.
Quello che viene negato da alcune Chiese non unite a Roma, piuttosto, è la trasferibilità del primato di Pietro ai suoi successori, i romani pontefici. Ma se il primato fosse un attributo puramente personale, si dovrebbe spiegare una cosa. A quale scopo l’epilogo di Giovanni (scritto dopo la morte del discepolo amato e quindi alla fine del primo secolo), decenni dopo la morte di Pietro, lo ribadirebbe con tale forza? Sarebbe del tutto irrilevante ormai, se non fosse da intendere come trasmesso ai successori di Pietro.
Se a 40 anni dalla morte dell’apostolo ancora si sente il bisogno di sottolineare la funzione petrina di guida delle pecore e degli agnelli di Cristo, significa che essa è ancora viva perché è passata a coloro che lo hanno sostituito.
In Luca: Conferma i tuoi fratelli
Anche Luca ha un accenno che conferma le tradizioni di Matteo e Giovanni:
«Simone, Simone, ecco satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli» (Luca 22,31-32).
In questa frase è ampiamente annunciata la debolezza personale di Pietro. La sua funzione di roccia e di guida non è basata sulle qualità puramente umane, ma sulla forza dello Spirito che agirà in lui. Cos’altro dire?
Qualcos’altro che ci spiega papa Francesco nelle sue catechesi, basandosi su tre diversi significati del verbo «confermare»: confermare nella fede, confermare nell’amore, confermare nell’unità.
Anzitutto, il Papa è chiamato a confermare nella fede. A Pietro viene promesso il primato quando confessa la verità sul Signore: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16). «Confessione che non nasce da lui, ma dal Padre celeste». «Il servizio ecclesiale di Pietro ha il suo fondamento nella confessione di fede in Gesù, il Figlio del Dio vivente, resa possibile da una grazia donata dall’alto». Il Papa è il Papa in quanto conferma i fedeli nella verità.
Secondo: il Papa è Papa perché conferma nell’amore. Il Vescovo di Roma è chiamato a testimoniare il suo amore per la Chiesa in modo totale, senza temere contraddizioni né persecuzioni.
Terzo: il Papa è Papa perché conferma nell’unità. La Costituzione dogmatica «Lumen Gentium» del Concilio Ecumenico Vaticano II definisce il Papa «principio e fondamento perpetuo e visibile dell’unità della fede e della comunione». Lo stesso testo conciliare afferma che il Signore «costituì gli Apostoli a modo di collegio o gruppo stabile, a capo del quale mise Pietro, scelto di mezzo a loro». Questo fu un problema centrale per il Vaticano II: armonizzare il primato del Papa, necessario all’unità, con la collegialità tra i vescovi, necessaria al governo di una Chiesa estesa e complessa. Senza la collegialità, avverte papa Francesco, l’unità rischia di trasformarsi in una sterile «uniformità».
«Dobbiamo andare per questa strada della sinodalità, crescere in armonia con il servizio del primato». Questo lo disse già all’indomani della sua elezione nell’Omelia del 29 giugno 2013.
Citando ancora la «Lumen gentium», affermò che il collegio dei vescovi, «in quanto composto da molti, esprime la varietà e universalità del Popolo di Dio». Ma questa varietà deve poi essere ricondotta a unità intorno al Vescovo di Roma.
«Nella Chiesa la varietà, che è una grande ricchezza, si fonde sempre nell’armonia dell’unità, come un grande mosaico in cui tutte le tessere concorrono a formare l’unico grande disegno di Dio».
«Unirsi nelle differenze», perciò, coniugando collegialità e primato: ma questo è possibile solo se i vescovi si affidano e confessano anzitutto la verità e alimentano questa professione di fede con una vita spirituale caratterizzata dal «consumarsi per amore di Cristo e del suo Vangelo».
Primato di onore o di governo?
La maggioranza delle Chiese protestanti non riconosce l’episcopato, a maggior ragione nega che vi sia un primato petrino.
Le Chiese ortodosse riconoscono a Pietro e quindi a Roma un primato di onore ma non di governo.
La Chiesa cattolica afferma: è un ministero di unità.
Riporto una dichiarazione su Il primato del successore di Pietro nel mistero della Chiesa, Congregazione per la dottrina della fede, a firma card. Ratzinger, 1998
4. Nel disegno divino sul Primato come «ufficio dal Signore concesso singolarmente a Pietro, il primo degli Apostoli, e da trasmettersi ai suoi successori» (Lumen gentium n. 20), si manifesta già la finalità del carisma petrino, ovvero «l’unità di fede e di comunione» (Conc. Vaticano I, Cost. dogm. Pastor aeternus, proemio) di tutti i credenti. Il Romano Pontefice infatti, quale Successore di Pietro, è «perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità sia dei Vescovi sia della moltitudine dei fedeli» (Lumen gentium n. 23), e perciò egli ha una grazia ministeriale specifica per servire quell’unità di fede e di comunione che è necessaria per il compimento della missione salvifica della Chiesa.
5. «Quando la Chiesa Cattolica afferma che la funzione del Vescovo di Roma risponde alla volontà di Cristo, essa non separa questa funzione dalla missione affidata all’insieme dei Vescovi, anch’essi “vicari e legati di Cristo” » (Lumen gentium, n. 27). Il Vescovo di Roma appartiene al loro collegio ed essi sono i suoi fratelli nel ministero. Si deve anche affermare, reciprocamente, che la collegialità episcopale non si contrappone all’esercizio personale del Primato né lo deve relativizzare.
7. Il Primato differisce nella propria essenza e nel proprio esercizio dagli uffici di governo vigenti nelle società umane: non è un ufficio di coordinamento o di presidenza, né si riduce ad un Primato d’onore, né può essere concepito come una monarchia di tipo politico. Il Romano Pontefice è — come tutti i fedeli — sottomesso alla Parola di Dio, alla fede cattolica ed è garante dell’obbedienza della Chiesa e, in questo senso, servus servorum. Egli non decide secondo il proprio arbitrio, ma dà voce alla volontà del Signore, che parla all’uomo nella Scrittura vissuta ed interpretata dalla Tradizione; in altri termini, la episkopè del Primato ha i limiti che procedono dalla legge divina e dall’inviolabile costituzione divina della Chiesa contenuta nella Rivelazione.Il Successore di Pietro è la roccia che, contro l’arbitrarietà e il conformismo, garantisce una rigorosa fedeltà alla Parola di Dio: ne segue anche il carattere martirologico del suo Primato.
15. La piena comunione voluta dal Signore tra coloro che si confessano suoi discepoli richiede il riconoscimento comune di un ministero ecclesiale universale «nel quale tutti i Vescovi si riconoscano uniti in Cristo e tutti i fedeli trovino la conferma della propria fede» (Ut unum sint, n. 97). La Chiesa Cattolica professa che questo ministero è il ministero primaziale del Romano Pontefice, successore di Pietro, e sostiene con umiltà e con fermezza «che la comunione delle Chiese particolari con la Chiesa di Roma, e dei loro Vescovi con il Vescovo di Roma, è un requisito essenziale — nel disegno di Dio — della comunione piena e visibile» (Ibidem).
Come si vede, l’enfasi è sull’unità e sulla comunione. Il primato petrino non è solo di onore, ma non è neppure equiparabile ad una monarchia assoluta o ad una forma di presidenza o di coordinamento.
Papa Francesco, poi, con il suo presentarsi quale Vescovo di Roma al momento dell’elezione, ha cancellato mille anni dell’abisso scavato tra la Chiesa latina e le Chiese ortodosse, e col suo insistere sulla sinodalità (come processo, e non come assemblea istituzionale) ha rimesso la Chiesa in cammino sulle vie del tempo.
Voglia Dio che il suo appello non cada nel vuoto, come in certe situazioni in cui si cerca di abbuiare il processo sinodale riconducendolo a una semplice risposta a un questionario…
La presenza di Pietro e Paolo a Roma
Di Paolo gli stessi Atti degli Apostoli attestano l’arrivo e la permanenza a Roma. Di una permanenza romana di Pietro, invece, non ci sono attestazioni bibliche esplicite, anzi la lettera di Paolo ai Romani, scritta verso il 58, menziona e saluta ben 29 membri della Chiesa di Roma, ma fra questi non vi è Pietro; probabilmente l’apostolo in quel momento non era presente nell’Urbe.
D’altra parte, la tradizione colloca il suo martirio a seguito della persecuzione neroniana, quindi dal 64 in poi; potrebbe esservisi recato successivamente. Tanto più che nella prima lettera di Pietro, che ha tutti i crismi della autenticità, l’autore, Pietro, saluta da Babilonia (1Pt 5,13) che è chiaramente un simbolo di Roma (cfr. lo stesso appellativo nell’Apocalisse).
Dai «Discorsi» di Sant’Agostino, vescovo
(Disc. 295, 1-2. 4. 7-8)
Il martirio dei santi apostoli Pietro e Paolo ha reso sacro per noi questo giorno. Noi non parliamo di martiri poco conosciuti; infatti «per tutta la terra si diffonde la loro voce e ai confini del mondo la loro parola» (Sal 18, 5). Questi martiri hanno visto ciò che hanno predicato. Hanno seguito la giustizia. Hanno testimoniato la verità e sono morti per essa.
Il beato Pietro, il primo degli apostoli, dotato di un ardente amore verso Cristo, ha avuto la grazia di sentirsi dire da lui: «E io ti dico: Tu sei Pietro» (Mt 16, 18). E precedentemente Pietro si era rivolto a Gesù dicendo: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16, 16). E Gesù aveva affermato come risposta: «E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa» (Mt 16, 18). Su questa pietra stabilirò la fede che tu professi. Fonderò la mia chiesa sulla tua affermazione: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». Tu infatti sei Pietro. Pietro deriva da pietra e non pietra da Pietro. Pietro deriva da pietra, come cristiano da Cristo.
Il Signore Gesù, come già sapete, scelse prima della passione i suoi discepoli, che chiamò apostoli. Tra costoro solamente Pietro ricevette l’incarico di impersonare quasi in tutti i luoghi l’intera Chiesa. Ed è stato in forza di questa personificazione di tutta la Chiesa che ha meritato di sentirsi dire da Cristo: «A te darò le chiavi del regno dei cieli» (Mt 16, 19).
Ma queste chiavi le ha ricevute non un uomo solo, ma l’intera Chiesa. Da questo fatto deriva la grandezza di Pietro, perché egli è la personificazione dell’universalità e dell’unità della Chiesa. «A te darò» quello che è stato affidato a tutti. È ciò che intende dire Cristo. E perché sappiate che è stata la Chiesa a ricevere le chiavi del regno dei cieli, ponete attenzione a quello che il Signore dice in un’altra circostanza: «Ricevete lo Spirito Santo» e subito aggiunge: «A chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi» (Gv 20, 22-23).
Giustamente anche dopo la risurrezione il Signore affidò allo stesso Pietro l’incombenza di pascere il suo gregge. E questo non perché meritò egli solo, tra i discepoli, un tale compito, ma perché quando Cristo si rivolge ad uno vuole esprimere l’unità. Si rivolge da principio a Pietro, perché Pietro è il primo degli apostoli.
Non rattristarti, o apostolo. Rispondi una prima, una seconda, una terza volta. Vinca tre volte nell’amore la testimonianza, come la presunzione è stata vinta tre volte dal timore. Deve essere sciolto tre volte ciò che hai legato tre volte. Sciogli per mezzo dell’amore ciò che avevi legato per timore.
E così il Signore una prima, una seconda, una terza volta affidò le sue pecorelle a Pietro.
Un solo giorno è consacrato alla festa dei due apostoli. Ma anch’essi erano una cosa sola. Benché siano stati martirizzati in giorni diversi, erano una cosa sola. Pietro precedette, Paolo seguì. Celebriamo perciò questo giorno di festa, consacrato per noi dal sangue degli apostoli.
Amiamone la fede, la vita, le fatiche, le sofferenze, le testimonianze e la predicazione.
Dai «Discorsi» di san Leone Magno, papa
(Disc. 4 nell’anniversario della sua elezione, 2-3)
Tra tutti gli uomini solo Pietro viene scelto per essere il primo a chiamare tutte le genti alla salvezza e per essere il capo di tutti gli apostoli e di tutti i Padri della Chiesa. Nel popolo di Dio sono molti i sacerdoti e i pastori, ma la vera guida di tutti è Pietro, sotto la scorta suprema di Cristo. Carissimi, Dio si è degnato di rendere quest’uomo partecipe del suo potere in misura grande e mirabile. E se ha voluto che anche gli altri principi della Chiesa avessero qualche cosa in comune con lui, è sempre per mezzo di lui che trasmette quanto agli altri non ha negato.
A tutti gli apostoli il Signore domanda che cosa gli uomini pensino di lui e tutti danno la stessa risposta fino a che essa continua ad essere l’espressione ambigua della comune ignoranza umana. Ma quando gli apostoli sono interpellati sulla loro opinione personale, allora il primo a professare la fede nel Signore è colui che è primo anche nella dignità apostolica.
Egli dice: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente»; e Gesù gli risponde: «Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli» (Mt 16, 16-17). Ciò significa: tu sei beato perché il Padre mio ti ha ammaestrato, e non ti sei lasciato ingannare da opinioni umane, ma sei stato istruito da un’ispirazione celeste. La mia identità non te l’ha rivelata la carne e il sangue, ma colui del quale io sono il Figlio unigenito.
Gesù continua: «E io ti dico»: cioè come il Padre mio ti ha rivelato la mia divinità, così io ti manifesto la tua dignità. «Tu sei Pietro». Ciò significa che se io sono la pietra inviolabile, «la pietra angolare che ha fatto dei due un popolo solo» (cfr. Ef 2, 14. 20), il fondamento che nessuno può sostituire, anche tu sei pietra, perché la mia forza ti rende saldo. Così la mia prerogativa personale è comunicata anche a te per partecipazione. «E su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa» (Mt 16, 18). Cioè, su questa solida base voglio costruire il mio tempio eterno. La mia Chiesa destinata a innalzarsi fino al cielo, dovrà poggiare sulla solidità di questa fede.
Le porte degli inferi non possono impedire questa professione di fede, che sfugge anche ai legami della morte. Essa infatti è parola di vita, che solleva al cielo chi la proferisce e sprofonda nell’inferno chi la nega. E’ per questo che a san Pietro viene detto: «A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherei sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli» (Mt 16, 19). Certo, il diritto di esercitare questo potere è stato trasmesso anche agli altri apostoli, questo decreto costitutivo è passato a tutti i principi della Chiesa. Ma non senza ragione è stato consegnato a uno solo ciò che doveva essere comunicato a tutti. Questo potere infatti è affidato personalmente a Pietro, perché la dignità di Pietro supera quella di tutti i capi della Chiesa.
Dalle «Omelie» di san Giovanni Crisostomo, vescovo
(Om. 2, Panegirico di san Paolo, apostolo)
Che cosa sia l’uomo e quanta la nobiltà della nostra natura, di quanta forza sia capace questo essere pensante, lo mostra in un modo del tutto particolare Paolo. Ogni giorno saliva più in alto, ogni giorno sorgeva più ardente e combatteva con sempre maggior coraggio contro le difficoltà che incontrava.
Alludendo a questo diceva: Dimentico il passato e sono proteso verso il futuro (cfr. Fil 3, 13). Vedendo che la morte era ormai imminente, invita tutti alla comunione di quella sua gioia dicendo: «Gioite e rallegratevi con me» (Fil 2, 18).
Esulta ugualmente anche di fronte ai pericoli incombenti, alle offese e a qualsiasi ingiuria e, scrivendo ai Corinzi, dice: Sono contento delle mie infermità, degli affronti e delle persecuzioni (cfr. 2 Cor 12, 10). Aggiunge che queste sono le armi della giustizia e mostra come proprio di qui gli venga il maggior frutto, e sia vittorioso dei nemici.
Battuto ovunque con verghe, colpito da ingiurie e insulti, si comporta come se celebrasse trionfi gloriosi o elevasse in alto trofei. Si vanta e ringrazia Dio, dicendo: Siano rese grazie a Dio che trionfa sempre in noi (cfr. 2 Cor 2, 14). Per questo, animato dal suo zelo di apostolo, gradiva di più l’altrui freddezza e le ingiurie che l’onore, di cui invece noi siamo così avidi. Preferiva la morte alla vita, la povertà alla ricchezza e desiderava assai di più la fatica che non il riposo. Una cosa detestava e rigettava: l’offesa a Dio, al quale per parte sua voleva piacere in ogni cosa.
Godere dell’amore di Cristo era il culmine delle sue aspirazioni e, godendo di questo suo tesoro, si sentiva più felice di tutti. Senza di esso al contrario nulla per lui significava l’amicizia dei potenti e dei principi. Preferiva essere l’ultimo di tutti, anzi un condannato, però con l’amore di Cristo, piuttosto che trovarsi fra i più grandi e i più potenti del mondo, ma privo di quel tesoro.
Il più grande ed unico tormento per lui sarebbe stato perdere questo amore. Ciò sarebbe stato per lui la geenna, l’unica sola pena, il più grande e il più insopportabile dei supplizi.
Il godere dell’amore di Cristo era per lui tutto: vita, mondo, condizione angelica, presente, futuro, e ogni altro bene. All’infuori di questo, niente reputava bello, niente gioioso. Ecco perché guardava alle cose sensibili come ad erba avvizzita. Gli stessi tiranni e le rivoluzioni di popoli perdevano ogni mordente. Pensava infine che la morte, la sofferenza e mille supplizi diventassero come giochi da bambini quando si trattava di sopportarli per Cristo.