Richiamo brevemente la vita di Santa Teresa d’Avila, per lasciare poi a lei direttamente la parola nel descrivere il suo desiderio di evangelizzazione.
Gli inizi
Teresa Sánchez de Cepeda nasce ad Avila il 28 marzo 1515, e viene educata alla fede dalla madre. Quando Teresa ha circa 14 anni, la madre muore. La ragazza viene affidata per la sua educazione alle Agostiniane di Avila, dove l’incontro con una santa religiosa le fa scoprire il germe di una vocazione.
A 21 anni, data l’opposizione paterna, fugge di casa per entrare nel monastero carmelitano dell’Incarnazione di Avila. Qui, dopo un periodo di vero fervore, si intiepidisce, dandosi a frivole conversazioni e cessando di coltivare la speciale amicizia con Dio che le derivava dall’orazione.
Una svolta radicale
A un certo punto Teresa capisce la meschinità del suo comportamento, tronca ogni relazione mondana e torna con decisione alla pratica della preghiera.
Non solo: pensa anche ad una riforma del monastero, per ricondurlo alla primitiva Regola carmelitana.
Il 24 agosto 1562 ha così inizio, tra grandi difficoltà, la fondazione di San Giuseppe, il suo primo monastero riformato, cui ne seguiranno altri sedici. Teresa penserà anche ad un ramo maschile con l’aiuto di San Giovanni della Croce , che in Duruelo, nel 1568, fonda il primo convento di Carmelitani Scalzi. Essi avranno l’obbligo, oltre alla Regola comune con le monache ma senza clausura, di occuparsi anche dell’apostolato diretto. Presto, si fonderanno ben 14 conventi maschili.
Tribolazioni
Santa Teresa d’Avila si troverà ad affrontare sempre nuove persecuzioni, all’interno della Chiesa, che minacciano di far estinguere il nuovo ordine, come la chiusura dei noviziati e la carcerazione o espulsione dei capi della Riforma. Lei stessa si trova segregata nel monastero di Toledo, da cui con una nutrita corrispondenza incoraggia gli altri, li incita alla preghiera e alla fiducia, finché la sua opera viene giuridicamente riconosciuta dall’autorità della Chiesa.
Le infermità che minano la sua salute non le lasciano un momento di tregua; a queste si aggiungono l’incomprensione di confessori e di persone che la ritenevano quasi indemoniata, le vergognose calunnie di alcuni nemici e dello stesso Nunzio Apostolico che la giudica femmina inquieta e vagabonda. Una vita sofferta. Teresa sopportava ed offriva tutto per amore di Dio.
Tuttavia, il motivo per cui Santa Teresa d’Avila spicca tra le figure di primo piano della Chiesa è la sua dottrina mistica, nella quale ha lasciato un’impronta incancellabile per la storia della spiritualità.
Dopo la sua ultima fondazione, quella di Burgos, giunta ad Alba de Tormes, vi morì, il 4 ottobre 1582. Aveva sessantasette anni.
Fu proclamata santa il 12 marzo 1622 e poi, il 27 settembre 1970, da Paolo VI, Dottore della Chiesa.
Una vita impetuosa
Santa Teresa d’Avila stessa ha scritto:
«Fin dall’inizio aver dei genitori virtuosi timorati di Dio, abbinato ai favori di cui Egli mi circondava, sarebbe certo dovuto bastarmi per crescere buona (…).
Mio padre era appassionato alla lettura di buoni libri e ne teneva pure di quelli scritti in lingua nazionale, perché potessero leggerli anche ai suoi figli. Mia madre si premurava poi di farci pregare e di fomentare in noi la devozione alla Madonna e ad alcuni santi in particolare. Ora, tutto questo incominciò a destare precocemente la mia intelligenza che si aprì – ritengo – già verso i sei o sette anni. Mi aiutava molto il fatto di non scorgere nei miei genitori altra propensione se non quella verso la virtù. E di virtù ne avevano molte (…).
Eravamo tre sorelle e nove fratelli. Grazie al Buon Dio in materia di virtù assomigliavano tutti ai genitori, tranne me, che pure ero la prediletta di mio padre. E prima che cominciassi ad offendere Dio, la sua predilezione poteva forse anche essere in certo qual modo motivata, perché io mi sento attanagliare dal rimorso, quando rammento le buone inclinazioni che il Signore mi aveva elargite e quanto male abbia saputo approfittarne. I miei fratelli infatti non mi distoglievano minimamente dal servizio di Dio.
Ne avevo uno quasi della mia età (ed era poi quello che amavo di più, sebbene li amassi tutti intensamente, venendone cordialmente riamata), col quale mi appartavo spesso a leggere le vite dei santi (…) progettavamo addirittura di recarci nella terra dei mori, elemosinando per amore di Dio nella speranza che là poi ci decapitassero. E credo che il Signore, pur in un’età così tenera, ce ne avrebbe dato il coraggio, se ne avessimo trovato i mezzi» (Vita 1,3 ss.).
Gesù è amico
«Chi ha come amico Cristo Gesù e segue un capitano così magnanimo come lui, può certo sopportare ogni cosa; Gesù infatti aiuta e dà forza, non viene mai meno ed ama sinceramente…
È da lui, Signore nostro, che ci vengono tutti i beni. Egli ci istruirà. Meditando la sua vita, non si troverà modello più perfetto. Che cosa possiamo desiderare di più, quando abbiamo al fianco un così buon amico che non ci abbandona mai nelle tribolazioni e nelle sventure, come fanno gli amici del mondo? Beato colui che lo ama per davvero e lo ha sempre con sé! Guardiamo il glorioso apostolo Paolo che non poteva fare a meno di avere sempre sulla bocca il nome di Gesù, perché l’aveva ben fisso nel cuore.
Conosciuta questa verità, ho considerato e ho appreso che alcuni santi molto contemplativi, come Francesco, Antonio da Padova, Bernardo, Caterina da Siena, non hanno seguito altro cammino. Bisogna percorrere questa strada con grande libertà, abbandonandoci nelle mani di Dio. Se egli desidera innalzarci fra i principi della sua corte, accettiamo volentieri tale grazia. Ogni volta poi, che pensiamo a Cristo, ricordiamoci dell’amore che lo ha spinto a concederci tante grazie e dell’accesa carità che Dio ci ha mostrato dandoci in lui un pegno della tenerezza con cui ci segue: amore infatti domanda amore. Perciò sforziamoci di considerare questa verità e di eccitarci ad amare. Se il Signore ci facesse la grazia, una volta, di imprimerci nel cuore questo amore, tutto ci diverrebbe facile e faremmo molto, in breve e senza fatica» (Vita, 22,6-7,14).
L’ansia dell’evangelizzazione
Teresa, che da bambina era fuggita di casa col fratello Rodrigo per recarsi nella terra dei Mori e lì conseguire il martirio, è contemporanea del fenomeno della colonizzazione del Nuovo Mondo di cui la Spagna è protagonista, ed è al corrente dell’esistenza di popolazioni che non solo non conoscono Cristo, ma sono anche oppresse e sfruttate fino alla morte. Il suo desiderio di evangelizzazione si concretizza nella nascita del ramo maschile del nuovo Carmelo, cui sarà permesso quell’apostolato diretto che alle donne non era concesso.
Così racconta il suo incontro, avvenuto nel 1566, con il missionario francescano Alfonso Maldonado, un apostolo delle Indie e difensore degli indios che lei confessa di avere invidiato perché poteva mettere in pratica personalmente l’attività apostolica:
«Era tornato da poco dalle Indie e cominciò a raccontarmi dei molti milioni di anime che laggiù si perdevano per mancanza di istruzione religiosa… Io rimasi così afflitta per la perdita di tante anime che non sapendomi più contenere mi ritirai tutta in lacrime in un romitorio e là, innalzando la mia voce al Signore, lo supplicai di fornirmi qualche mezzo per contribuire a guadagnarne qualcuna al suo servizio, poiché tante gliene rapiva il demonio, e di darmi la possibilità di fare un po’ di bene con le preghiere visto che non sapevo far altro» (Fondazioni, I).
Ma la sua reazione non fu solo quella di pregare. I 4,6). Come si può parlare di «opere e opere» a delle claustrali prive di qualsiasi apostolato esteriore? Teresa non vi vedeva contraddizione. La preghiera, dice, non è farsi vezzeggiare da Dio, ma farsi fortificare nella propria debolezza affinché si possa imitare il Figlio. «Fissate il vostro sguardo sul Crocifisso e tutto vi sarà facile. Se Sua Maestà ci ha dimostrato il suo amore con così meravigliose opere e con così atroci tormenti, come volete contentarlo soltanto con parole? Sapete in cosa consista essere davvero spirituali? Farsi schiavi di Dio, marcati dal suo ferro, che è quello della croce, avendogli dato la nostra libertà, sì che egli ci possa vendere quali schiavi di tutto il mondo, come lo fu lui» (7M 4,8).
Toccherà poi all’altra Teresa, Santa Teresa di Lisieux, tre secoli dopo, formulare più compiutamente questa dottrina, affermando che la contemplazione, collocando la persona nel cuore della Chiesa, diventa in sé propriamente apostolica, tanto che l’atto più irrilevante, come raccogliere una spilla da terra, partecipa alla carità ecclesiale che abbraccia il mondo. Questo perché ogni anonimo e umile atto di una claustrale diventa azione della Sposa che si lascia attirare dallo Sposo e con sé trascina tutte le anime che lo Sposo le affida oltre ogni confine spaziotemporale. Mostrare l’unità tra la massima interiorizzazione e la massima effusione missionaria è stato il dono dei mistici carmelitani.
La santità: dal monastero alle strade del mondo
Per converso, poiché ogni medaglia ha il suo rovescio, e come direbbe C.S. Lewis chiedersi quale sia la parte più utile sarebbe «un po’ come discutere su quale lama di un paio di forbici sia più necessaria», molti santi assai «attivi» hanno insegnato come rendere contemplativa l’attività apostolica.
Per Sant’Ignazio di Loyola il ritiro monastico viene rappresentato dalle esigenze della missione nell’obbedienza assoluta. Sulla stessa linea si muoveranno tutte le congregazioni missionarie e apostoliche. Per S. Vincenzo de’ Paoli vige la clausura come «clausura caritatis», e il bisogno dei poveri diviene, per il religioso, il muro di cinta di un severo monastero.
Lo stesso principio vale per tutti i Santi della carità nella cura dei giovani abbandonati (San Giovanni Bosco) o dei malati (San Giuseppe Benedetto Cottolengo). Alcuni sentiranno addirittura l’urgenza di generare assieme tanto istituti caritativi che claustrali e perfino eremitici (San Luigi Orione).
La stessa scelta è stata operata da Madre Teresa di Calcutta: tutte le sue missionarie sono strette da una sorta di clausura eucaristica che permette loro di riconoscere le specie eucaristiche anche nelle membra sofferenti dei poveri. Non solo: accanto alle suore di vita attiva, madre Teresa ha fondato anche il ramo contemplativo, costituito da suore (alla contemplazione continua uniscono per due ore al giorno la visita ai bisognosi) e dai fratelli contemplativi (anch’essi uniscono alla contemplazione la visita agli anziani e ai poveri nelle strade, negli ospedali e nelle prigioni). Nessuna opposizione dunque tra vocazione claustrale e vita di carità, ma complementarietà organica che non consente che l’una stia senza l’altra.
TESTI DI RIFERIMENTO: Antonio Maria Sicari ocd, L’itinerario di Santa Teresa d’Avila, Jaka Book, Milano 1994; Id., Il dono di santa Teresa d’Avila alla Chiesa e al mondo, «Teresianum» 66 (2015/1-2) 31- 77.
Un pensiero di Jonescu
Eugène Jonescu, alla domanda sulle personalità da lui più apprezzate, rispondeva:
«I santi. Non ce ne sono altri: S. Giovanni della Croce, S. Teresa d’Avila, S. Francesco, S. Paolo… i grandi mistici. Sono solo loro: il loro messaggio, la loro testimonianza sono assolutamente indiscutibili. Hanno compiuto dei miracoli, ma non è questo che è interessante. Ciò che conta è che credevano profondamente, che sono riusciti a fondersi con Dio. Non possiamo assolutamente essere come santi, ma dobbiamo prenderli a modelli per comportarci… Avrei voluto vivere una vita da santo. Avrei dovuto vivere in un ambiente monacale, una vita religiosa. Quando penso all’età che ho, mi dico che ho perso il mio tempo. Forse non del tutto, perché l’arte è la sola cosa, dopo la religione, che ci conduca verso l’assoluto» (La ricerca di Dio, Jaca Book, 36).