
Ventidue maggio. In tutto il mondo ricorre Santa Rita da Cascia, la santa degli impossibili; ma a Livorno è Santa Giulia vergine e martire cartaginese, sua santa patrona. Come mai una santa africana (o corsa, secondo una tradizione locale) è approdata a Livorno, dove è celebrata con tanta convinzione? La venerazione livornese di Santa Giulia è legata al monachesimo insulare toscano del V secolo.
Il monachesimo dell’arcipelago toscano

Le prime attestazioni dell’esistenza di cristiani nell’arcipelago toscano si riferiscono alla presenza di monaci, documentata da fonti letterarie a Montecristo, Capraia e Gorgona. A queste si aggiunge la testimonianza archeologica delle catacombe cristiane di Pianosa.
Siamo nel IV secolo, le persecuzioni pagane si sono appena concluse con la svolta costantiniana, ma permangono le persecuzioni dei vandali ariani contro i cattolici. Queste determineranno la fuga dei cristiani fedeli a Roma dai territori dell’Africa Settentrionale verso le coste tirreniche, come l’arcipelago toscano, appunto. Così verso il 450 arrivò all’isola di Montegiove, da lui ribattezzata Montecristo, San Mamiliano; così un secolo dopo, secondo la tradizione, sbarcherà a Baratti San Cerbone con i suoi santi compagni Regolo e Giusto, fuggiti dai vandali per essere perseguitati prima dagli ostrogoti (Totila), poi dai longobardi (Gummarith). Intanto il monachesimo prosperava nelle isole. Vediamo le prime testimonianze sul monachesimo insulare toscano.
Su Montecristo
Sull’isola di Montecristo, la presenza eremitica è testimoniata dal papa Gregorio Magno. Egli, nel giugno 591, scrisse una lettera a tutti i monaci viventi nell’isola, lamentando il fatto che essi non osservassero alcuna regola. Pertanto egli mandò l’abate Orosio affinché, dopo averne valutato la condotta, impartisse loro le necessarie disposizioni; e li esortò a prestargli obbedienza e ad osservare scrupolosamente le sue disposizioni.
La presenza di monaci sull’isola di Montecristo è certamente da retrodatare. C’è chi attribuisce l’inizio della vita religiosa nelle isole di Montecristo e del Giglio ai preti Senzio e Mamiliano e a tre compagni, fuggiti sul finire del V secolo dall’Africa invasa dai Vandali e giunti dopo varie peripezie a Montecristo, ove Mamiliano sarebbe morto, per essere poi sepolto al Giglio. Il culto di san Mamiliano nel Livornese era già diffuso nell’VIII secolo, poiché a lui era intitolata una chiesa «in loco Collinem», ossia nelle Colline Livornesi, attestata nel febbraio 757 ma certamente più antica.
Più antiche le attestazioni per quanto riguarda Capraia e Gorgona.
Su Capraia e Gorgona
Paolo Orosio: 397
Paolo Orosio, contemporaneo agli eventi, menziona i sanctos servos Dei cui si rivolge nel 397, nell’isola di Capraia, l’ufficiale mauro Mascezel. Questi era incaricato dall’imperatore Onorio di guidare una spedizione militare contro il fratello Gildone. Mascezel, dopo essere partito da Pisa con un esiguo numero di soldati, fece tappa nell’isola toscana di Capraia; lì pregò e digiunò con questi santi uomini per alcuni giorni, e alla loro intercessione fu poi attribuita la vittoria ottenuta.
Sant’Agostino: 398
La presenza e il prestigio degli anacoreti della Capraia alla fine del IV secolo sono confermati dalla lettera, databile al 398, con cui Agostino si rivolse a Eudossio, «fratri et compresbytero», e ai fratres che vivevano con lui nell’isola di Capraia; il santo li invita a pregare per lui, perché le sue preghiere erano indebolite dalla caligine e dal tumulto della vita secolare. D’altro lato, li invitava a non rifiutare il servizio pastorale se la Chiesa lo avesse loro richiesto. La scelta anacoretica ha il valore di testimonianza; ma la vita contemplativa doveva essere abbandonata qualora il supremo interesse della Chiesa lo avesse richiesto (Agostino d’Ippona, ep. 48).
San Gerolamo: 400
A fine IV secolo abbiamo anche la lettera n.77 in cui Gerolamo nell’estate del 400, narrando l’azione caritativa della nobildonna romana Fabiola, ne ricorda le peregrinazioni menzionando le isole dell’Arcipelago toscano tra le località «in quibus monachorum consistunt chori».
Rutilio Namaziano: 417
Una testimonianza significativa della presenza di monaci nell’arcipelago toscano, ma in campo avverso al cristianesimo, è resa nel agli inizi del V secolo dal funzionario imperiale pagano Rutilio Namaziano. Rutilio, che a Roma ha ricoperto incarichi importanti, si sente costretto a lasciare la città per tornare nei suoi possedimenti nella Gallia meridionale (attuale Provenza), di cui era originario, messi a rischio dalle scorrerie dei Visigoti. Perciò, nell’autunno / inverno del 417 costeggia le isole della Capraia e della Gorgona nel suo viaggio per mare da Roma verso la Gallia. Il viaggio è compiuto su una cymba, una navicella, da portus Romae fino ad Arelate, benché il testo superstite si interrompa a Luni. La rotta è descritta con puntuali riferimenti ai portus; alle positiones (scali attrezzati con servizi per l’acquata e la sosta); ai fluvii (approdi alle foci dei fiumi).
Il De reditu
Rutilio descrive il suo viaggio in un poemetto che ci è giunto incompleto, De reditu, cioè Il ritorno. Le vie di terra sono poco sicure e perciò sceglie il mare, anche se l’inverno è una stagione poco propizia alla navigazione; dunque procede lungo costa, in modo da poter riparare a terra in caso di maltempo. Nel poemetto ricorda le terre che scorrono davanti ai suoi occhi, o nelle quali sbarca: Porto Ercole, l’Argentario, l’isola del Giglio, l’Elba; poi Falesia, primo nucleo della città di Piombino. Qui, sceso a terra, ha modo di assistere ad una festa di contadini in onore di Osiride (corrispondente per i greci a Diòniso). L’antica Populonia è ritratta nella sua inarrestabile decadenza: «Non si possono più riconoscere i monumenti dell’epoca trascorsa, / immensi spalti ha consunto il tempo vorace […]. / Non indigniamoci che i corpi mortali si disgreghino: / ecco che possono anche le città morire» (traduzione di Alessandro Fo, edizione Einaudi).
Capraia
All’isola di Capraia egli dedica i vv. 439-452 e ce la presenta desolata per la sua geografia ma anche squallida per la presenza di uomini che fuggono la luce («squalet lucifugis insula plena viris»). Questi si autodefiniscono, grecamente, monaci («ipsi se monachos Graio cognomine dicunt»), volendo vivere «soli nullo (…) teste»; si isolano perché incapaci di sopportare le vicende della sorte; contraddittoriamente, per non voler essere infelici si rendono tali («quisquam sponte miser, ne miser esse queat?») e si condannano da soli all’ergastolo.
La Gorgona
Rutilio, convinto assertore della romanitas, non li può comprendere e li taccia di misantropia, la classica accusa di «odium humani generis». Nei vv. 511-526 accusa anche la Gorgona di dare asilo a uomini simili; ivi compreso un giovane patrizio, forse un suo parente («Noster (…) iuvenis maioribus amplis / nec censu inferior coniugio ve minor») che spinto da follia aveva secondo Rutilio abbandonato la società per vivere ignobilmente. Lo scrittore fa riferimento ai sortilegi di Circe, che almeno trasformava solo i corpi degli uomini in porci; mentre lo stile di vita dei monaci ne trasforma e deforma – secondo lui – anche gli animi.
Gregorio Magno: 591 – 594
Il fenomeno eremitico insulare fu durevole, anche se i monaci decaddero poi dal primitivo fervore, come indicano quattro lettere di Gregorio Magno (590-604), scritte nel giugno 591, e nel settembre e novembre 594.
Prima lettera
La prima incarica tra l’altro il defensor Simmaco, accompagnato dall’abate Orosio, di recarsi nell’isola di Gorgona per punire e correggere per il futuro gli abusi perpetrati dai monaci. Le altre tre lettere si riferiscono all’ex presbitero milanese Saturo (o Saturnino) che, rimosso dall’ordine sacerdotale per una non specificata colpa, sembrava aver continuato ad esercitare il suo ministero. In tal caso, il vescovo di Luni Venanzio avrebbe dovuto scomunicare il prete; in caso contrario, avrebbe potuto riammetterlo alla comunione tra i laici prima della morte.
Le altre lettere
Gregorio stabilì nella seconda lettera che Saturo, pur essendogli stato inibito il ministero presbiterale, si prendesse cura dei monasteri delle isole di Gorgona e Capraia sotto la vigilanza del vescovo. Nella lettera all’arcivescovo Costanzo si conferma quanto indicato a Venanzio; cioè che Saturo, reso ormai prudente e sollecito dopo il suo errore, avrebbe potuto rimanere a vivere da prete nell’isola in cui si trovava e continuare a prendersi cura dei monasteri di Gorgona e di Capraia.
La Passione di Santa Giulia: secolo VII

Altra testimonianza sul monachesimo nelle isole ci viene da un testo agiografico del VII secolo, attribuito proprio ai monaci della Capraia e della Gorgona; la Passio di santa Giulia, una cristiana cartaginese ricca e nobile fatta schiava dai vandali in seguito alla conquista della città e venduta a un mercante siriano di nome Eusebio, il quale ne aveva apprezzato le doti d’animo. Giulia soleva pertanto accompagnare il padrone nei suoi viaggi e proprio durante un viaggio in Corsica fu rapita da un governatore perverso chiamato Felice.
La fanciulla, condotta a terra, fu indotta a ripudiare la fede cristiana; ma, dato che questi sforzi si dimostrarono vani, dapprima la sottoposero a torture e flagellazione, quindi la crocifissero a Capo Corso. Subito dopo la morte avvennero vari miracoli e i monaci della vicina isola di Gorgona, avvisati in sogno dagli angeli, si misero in mare, trovarono il corpo della martire e lo trasportarono sulla loro isola dove le dettero sepoltura.
Le reliquie
Nel racconto della Passio si trovano mescolati elementi di verità con altri frutto della fantasia popolare. Poco probabile che in pieno V secolo sia avvenuto un martirio di tal fatta. Alcuni documenti inducono a pensare che Giulia abbia subito il martirio a Cartagine, vittima della persecuzione di Decio (250-251). Quando i Vandali invasero l’Africa (439), distrussero Cartagine e provocarono la fuga di molti cristiani; fu verosimilmente allora che le spoglie di Giulia giunsero in Corsica, dove le avrebbero poi raccolte i monaci delle due isole.
Nel 763 le reliquie furono trasferite a Brescia nella chiesa di San Salvatore eretta dal re Desiderio e dalla sua consorte Ansa; ma una parte, durante lo sbarco a Porto Pisano, fu sottratta (da par loro) dai labronici che di Santa Giulia fecero la loro patrona. Infatti si ha notizia della diffusione in zona fin dal IX secolo del culto verso la giovane martire.
La festa di S. Giulia, patrona di Livorno, si celebra il 22 maggio, giorno in cui, secondo i martirologi, ne sarebbe avvenuto il martirio.
Il culto di Santa Giulia a Livorno

Il culto di santa Giulia a Livorno è documentato fin dal IX secolo. Alla cala Liburna, dalla seconda metà del Duecento, gli abitanti dettero vita ad una confraternita per il culto eucaristico e la memoria della santa cartaginese. Fino ai primi decenni del Cinquecento, nei pressi della Fortezza Vecchia, esisteva una pieve dedicata a Santa Maria e Giulia. Demolita questa per far posto al fossato che circonda la fortezza medicea, la Confraternita del Santissimo Sacramento e di Santa Giulia trasformò in oratorio un piccolo magazzino sul retro del Bagno dei forzati, fino a quando non fu costruita una chiesa di Santa Giulia presso il Duomo (1602).
Data la piccolezza della chiesa di Santa Giulia, accanto ad un duomo abbastanza imponente, a Livorno è nato il detto «Santa Giulia fa l’elemosina al Duomo», applicabile a qualcuno di mezzi limitati che si adoperi per un amico più facoltoso.
Le celebrazioni
A Livorno le celebrazioni sono state imponenti, con la processione in mare e lungo i fossi medicei; lo spettacolo pirotecnico; la Messa in duomo; fino all’inaugurazione del nuovo impianto di illuminazione sotto il Voltone di Piazza della Repubblica, visibile dai battelli che percorrano le acque sottostanti alla piazza ma anche dalle grate del Voltone. Non sono mancate le gare dei remi, col trionfo del gozzo a dieci del Neri. Una curiosità: lo spettacolo pirotecnico previsto per la notte della vigilia «s’ha da fare», anzi è stato fatto; le uova che un gabbiano reale sta covando sul prato della Fortezza Nuova, proprio nella zona da cui dovevano partire i fuochi dì artificio, non si sono ancora schiuse, per cui non c’è stato il pericolo di spaventare i piccoli; e lo spettacolo, col consenso della Lipu, si è svolto. Lo potete vedere QUI.
Il romanzo di Santa Giulia

Che la storia / leggenda di Santa Giulia non sia da lasciar cadere nel dimenticatoio lo dimostra un recente romanzo storico di Folco Giusti (L’isola dell’ultimo ritorno, prefazione di Alessandro Fo, Padova, Primiceri Editore), ben 532 pagine la cui stesura è durata più di dieci anni. Una ricostruzione storica impeccabile per un’epoca (prima metà del V secolo) tormentata dalle continue invasioni barbariche. Naturalmente alla storia si mescola l’invenzione; i personaggi inventati hanno tutte le caratteristiche di personaggi storici, anche se non lo sono; a loro volta i personaggi storici devono svolgere azioni che propriamente storiche non sono; altrimenti il romanzo non si scriverebbe.
Personaggi, storici e non
Il personaggio storico da cui parte la vicenda è quel Rutilio Namaziano di cui abbiamo parlato; e il viaggio (il reditus) è quello che compie storicamente per tornare da Roma alla Provenza. Passando davanti alla Capraia, lui che è fedele all’antica religione pagana identificata con la grandezza di Roma, si riferisce ai monaci che la abitano nei termini infamanti che sappiamo. Però lo scrittore immagina che sull’isola Rutilio sia sbarcato e avendo effettivamente conosciuto questi monaci si sia almeno in parte ricreduto sul loro conto.
Tuttavia, il protagonista del romanzo non è Rutilio Namaziano, realmente esistito. Il protagonista è un personaggio inventato, suo figlio Rufio. Sarà lui a finire coinvolto nei tristi eventi di quegli anni burrascosi insieme alla sua innamorata e promessa sposa, la bellissima Giulia. Il romanzo si concluderà proprio sull’isola di Capraia.
Ora, io mi sono sobbarcata la lettura del ponderoso volume (ripeto, di 532 pagine), e devo dire che il romanzo mi ha colpito. Non toccherà certamente i vertici manzoniani; neppure li sfiora; ma immette il lettore in un contesto storico a tutto tondo attraverso una trama non forzata e vicende di personaggi che, tutto sommato, hanno un’anima. Il travagliato percorso di Rufio verso l’accettazione del cristianesimo (dapprima per amore di Giulia, passando poi per il rifiuto a seguito del suo martirio, infine con l’adesione di fede) sa un po’ di Quo Vadis, richiamando la vicenda di Vinicio e Ligia.
Un romanzo centrato
Il romanzo di Giusti non è certo al livello letterario del capolavoro del polacco Henryk Sienkiewicz (il quale grazie a questo romanzo ricevette il Nobel «per i suoi notevoli meriti come scrittore epico»), che è anche un inno alle radici della fede cattolica del suo paese. Tuttavia, L’isola dell’ultimo ritorno centra il bersaglio come romanzo storico. È palpabile l’atmosfera di declino e disfacimento dell’impero di Occidente, ormai giunto al suo termine; anche qui è interessante il confronto con il Quo Vadis che invece disegna l’immagine di una civiltà militarmente, economicamente e culturalmente ancora all’apice della sua storia – benché i germi della sua corruzione siano ormai piantati al suo interno.
Ma c’è un valore aggiunto. Da una parte ci sono i caratteri fittizi, come il figlio di Rutilio, Rufio; dall’altra i protagonisti della grande storia d’Europa: gli imperatori, i condottieri (Ezio), i capi barbari (un nome per tutti? Attila), particolarmente i vandali (Genserico). Ma il romanzo di Giusti, capraiese non di nascita ma di elezione, ci fa conoscere figure che appartengono a questo arcipelago, a questo mare: Rutilio Namaziano, i monaci di Capraia, San Mamiliano, Santa Giulia. Questo romanzo ha il sapore del mare, Mare Nostrum, Tirreno, arcipelago toscano. Da leggere, se piace il genere.