San Quirico: un bambino e due chiese

Santi Quirico e Giulitta. Di Llann Wé² – Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=95622394

San Quirico: chi era costui? Doveva essere una persona importante, visto il numero di chiese, località, paesi che portano il suo nome (in Italia, ben 5; inoltre, 40 paesi e frazioni lo hanno per patrono). Un predicatore, un taumaturgo, un asceta… Macché. Era un bambino di tre anni, martire insieme a sua madre Giulitta per essersi professato cristiano.

San Quirico, il santo bambino

Il 16 giugno per la Chiesa romana, il 15 luglio per le Chiese orientali, ricorre la memoria di San Quirico, il martire bambino di tre anni che fu ucciso insieme a sua madre Giulitta durante la persecuzione di Diocleziano nel 304. Di questo martirio esistono una quarantina di resoconti, alcuni assai fantasiosi, sui quali già si esprimevano dubbi qualche decennio dopo, tanto che i vescovi Teodoro e Zosimo provvidero ad espungerne gli elementi spuri (Lettera di Teodoro a Zosimo).

Secondo la tradizione agiografica, questo bambino, il più giovane santo dopo i Santi Innocenti, vedendo la madre, percossa dagli aguzzini, professarsi cristiana, gridò anche lui: «Io sono cristiano!». E poiché continuava a ripeterlo, il governatore, esasperato, lo sfracellò per terra, dopo di che anche la madre subì il martirio. Di costui nessuno ricorda il nome; dell’inerme bambino, 40 paesi in Italia vantano il patronato, e ben cinque ne portano il nome. Nome di tutto rispetto, è una variante di Ciriaco, dal greco Kyriakos, appartenente al Signore.

Due salmi della piccolezza

Mi sembra obbligato il riferimento al Salmo 8:

«O Signore, nostro Dio,
quanto è grande il tuo nome su tutta la terra:
sopra i cieli si innalza la tua magnificenza.
3 Con la bocca dei bimbi e dei lattanti
affermi la tua potenza
contro i tuoi avversari,
per ridurre al silenzio nemici e ribelli.
4 Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita,
la luna e le stelle che tu hai fissate,
5 che cosa è l’uomo perché te ne ricordi
e il figlio dell’uomo perché te ne curi?
6 Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli,
di gloria e di onore lo hai coronato:
7 gli hai dato potere sulle opere delle tue mani,
tutto hai posto sotto i suoi piedi;
8 tutti i greggi e gli armenti,
tutte le bestie della campagna;
9 Gli uccelli del cielo e i pesci del mare,
che percorrono le vie del mare.
10 O Signore, nostro Dio,
quanto è grande il tuo nome su tutta la terra!».

Salmo 131

E mi viene anche il richiamo a un altro salmo, il 131:

«Signore, non si esalta il mio cuore
né i miei occhi guardano in alto;
non vado cercando cose grandi
né meraviglie più alte di me.
2 Io invece resto quieto e sereno:
come un bimbo svezzato in braccio a sua madre,
come un bimbo svezzato è in me l’anima mia».

È significativo che il salmo parli di bimbo svezzato, saziato (gamul), e non di un lattante. Perché il lattante si può volgere alla madre per istinto; ma il bambino sazio si rifugia nel suo grembo per fiducia.

Perché, in fondo, il Regno dei Cieli appartiene ai bambini (Mt 19,14)…

Il culto

Come luogo del martirio di San Quirico la tradizione indica Tarso, in alternativa Antiochia. Il suo culto si diffuse in Occidente nel V – VI secolo e molte furono le chiese a lui dedicate, anche in Toscana; tra queste, la chiesetta romanica dello scomparso paese elbano di Grassera, di cui i ruderi dell’edificio sacro rimangono l’unica testimonianza visibile, e il monastero di San Quirico nel promontorio di Piombino, del quale pure rimangono ruderi.

Chiesa di San Quirico a Grassera (isola d’Elba)

Ruderi della chiesa di San Quirico, isola d’Elba. Di Ferpint – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=17251581

Se cercate su una mappa un’antica chiesa di San Quirico all’Elba, o se cercate il paese di Grassera, non li trovate. Furono distrutti secoli fa. Ma nel pianoro tra Rio e Cavo sono ancor oggi visibili i ruderi della chiesa di San Quirico di Grassera in stato di totale abbandono. Si pensi che, dopo la distruzione della chiesa, qualcuno usò persino l’abside come forno per cuocere il pane.

La chiesa fu edificata nel XII secolo, quando l’Elba era sotto il dominio di Pisa. Ad aula unica rettangolare di m. 15 x m. 6, con abside semicircolare, presentava la tipica tecnica muraria di costruzione romanica. Vi sono state trovate parecchie tessere mercantili del XIII e XIV secolo, legate all’estrazione e al commercio del ferro. Sul litorale, nel XIV secolo, si trovava il deposito delle miniere di ferro dell’Elba (Magazenum vene ferri de Ylba) in località Fiammingo (dal nome di Frammingo Molticci, supervisore del deposito).

Nell’elenco delle decime pagate al vescovo di Massa Marittima nel 1298 – 1303, la chiesa viene denominata «ecclesia Ss. Quirici et Menna». Il doppio titolo forse è dovuto al fatto che il pagamento dei tributi della chiesa di San Quirico era abbinato a quello della vicina chiesa di S. Bennato, chiamata anche di S. Menna, al Cavo. Tra il 1343 e il 1376, il rettore della chiesa di San Quirico era Dato di Pietro («…presbiter Datus rector ecclesie Sancti Quili de Grassula…», così si legge in documenti dell’Archivio di stato di Pisa). I ruderi della chiesetta sono l’unica testimonianza visibile ancora rimasta dello scomparso paese di Grassula.

Il paese scomparso

Documenti del 1260, redatti dal notaio pisano Rodolfino riguardo ai comuni elbani tenuti ogni anno a donare falconi all’arcivescovo di Pisa, citano Grassula o Grassera. Durante la prima metà del XIV secolo Grassera era a capo di una delle capitanìe dell’isola, distretti amministrativi istituiti dalla repubblica di Pisa. Di Grassula si fa menzione in alcuni documenti redatti sin dal 1200. Il nome, conosciuto anche come «Grassera», trae origine probabilmente dall’abbondanza sul luogo di pianticelle grasse.

Il paese fu distrutto durante l’attacco del 1534 dal corsaro turco Khayr al Din, detto il Barbarossa, ammiraglio di Solimano il Magnifico. Ricostruito, fu nuovamente e definitivamente raso al suolo nel 1553 da Dragut, di ritorno da Montecristo dove aveva depredato il monastero di San Mamiliano. I grasserinchi sopravvissuti si rifugiarono nel vicino paese di Rio nell’Elba e fornirono la nuova intitolazione della chiesa parrocchiale riese (San Giacomo) con quella della distrutta San Quirico. Della dozzina di chiese romaniche che nell’epoca della dominazione pisana furono costruite all’isola d’Elba, ben poche sopravvissero a quegli attacchi. Alcune furono distrutte (poi, si sa, quod non fecerunt barbari fecerunt Barberini…), altre rimaneggiate. Una sola pressoché intatta mantiene tutto il suo fascino romanico: quella di S. Stefano alle Trane.

Fonte: Rio Marina e il suo territorio nella storia e nella cultura a cura di G. Vanagolli, Pisa 1987.

Monastero di San Quirico nel promontorio di Piombino

Sito archeologico del Monastero di San Quirico (Piombino). Di Robeonekenoby – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=60262153

Dal 2002, gli scavi archeologici condotti dall’università di Siena e dalla Ca’ Foscari di Venezia hanno riportato alla luce diverse aree dell’antico monastero di San Quirico nel promontorio di Piombino.

Uno dei fulcri della vita religiosa della zona in età altomedievale fu infatti rappresentato dallo scomparso monastero di San Quirico, ubicato nella parte settentrionale del promontorio di Piombino ad una quota di circa 150 m slm. Da lì la vista spaziava verso ovest sul braccio di mare compreso fra Piombino e l’isola d’Elba, verso nord-ovest sull’acropoli di Populonia, lungo un itinerario di crinale che congiunge Populonia a Piombino. Il crinale funge da spartiacque per tutto un sistema di fossi anticamente determinante per lo sviluppo di importanti attività economiche, soprattutto metallurgiche.

Un monastero tra cielo, terra ed acqua

Foto di Marco Novara

La presenza di vaste lagune interne costituiva un’altra caratteristica del promontorio, collegato alla pianura retrostante da una striscia di terra delimitata dal lago di Rimigliano ad ovest e dalla laguna di Piombino ad est: «… un alto promontorio che cade a strapiombo sul mare, formando una penisola…», così lo descrive già Strabone (Strabone, Geographia , V, 2, 6). Strabone ricorda anche l’importanza delle acque interne utilizzate come ricetto portuale per la città di Populonia, segnalando l’esistenza di un sistema di approdi formato da una piccola rada e da due bacini interni. Esistono documenti che fino al XV secolo attestano l’accesso in laguna di imbarcazioni in cerca di riparo o coinvolte in azioni di pirateria. Vi era, cioè, possibile l’approdo di navi.

Il promontorio di Piombino nei secoli passati. Si noti la consistente presenza di lagune costiere. Fonte dell’immagine: https://www.insegnadelgiglio.it/wp-content/uploads/2017/03/3-Dallai.pdf

Non dobbiamo pensare all’esistenza di un immenso lago, ma piuttosto ad un insieme di aree allagate, alcune profonde, altre superficiali, e altre ancora asciutte. Questo tipo di ambiente permetteva l’itticoltura e la produzione di sale. Importanti nel corso dei secoli furono soprattutto i proventi delle saline (proprio con le saline si apre l’elenco dei beni trasferiti dagli Aldobrandeschi al monastero nel primo atto di donazione del 1094) per il monastero di San Quirico, come pure per il vicino monastero di San Giustiniano di Falesia, fondazione della Gherardesca dell’XI secolo. Nell’area populoniese sono attestate fino all’età moderna anche peschiere, quei vivaria della tarda antichità resi celebri dal passo poetico che Rutilio Namaziano dedica alla sua sosta presso Falesia.

Il bosco e la metallurgia

Foto di Marco Novara

L’immagine che oggi il promontorio ci offre è quella di un’area boscosa quasi selvaggia. In realtà, il sito del monastero non era distante dall’antica città di Populonia, che giungeva quasi a lambirlo con il suo circuito murario più basso, e la percorribilità dei sentieri era buona. Il contesto ambientale consentiva di sviluppare forme di economia diverse rispetto a quelle praticabili nella pianura. Il bosco, che oggi si estende sull’intera area, all’epoca non era così diffuso, come testimoniano le macchie di olivastri superstiti ad esempio nell’area di Campo alla Sughera e i resti di un mulino localizzato lungo il fosso di San Quirico.

La produzione del ferro sulla base del minerale ferroso estratto sull’isola, che si era sviluppata dal VI al I secolo a.C., si era intensificata di nuovo nella fase medievale. Il carbone era un elemento essenziale del ciclo produttivo siderurgico che richiedeva una grande quantità di combustibile, perciò erano importanti le aree ricche di boschi adatti alla produzione di buon carbone come la quercia, quali dovevano essere quelle del promontorio nel Medioevo. Poi, il consolidamento di rotte commerciali diverse e l’introduzione nei processi siderurgici dell’energia idraulica (legata alle aree con maggiore disponibilità di risorse idriche) fecero sì che con i primi anni del XIV secolo il promontorio esaurisse il proprio ruolo di area siderurgica. L’impulso che il monastero di San Quirico aveva fornito al ripopolamento dell’acropoli di Populonia cessa.

La chiesa e il monastero di San Quirico

Abside del monastero di San Quirico, Piombino (LI). Di Robeonekenoby – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=60293430

Le origini

La chiesa, preesistente al monastero, venne fondata in epoca imprecisata, verso il V – VII secolo, da monaci che seguivano la regola cenobitica di Pacomio. In epoca longobarda si ha la presenza monastica dei monaci di San Colombano che adottano la regola benedettina attorno al IX secolo. L’abate Agostino Cesaretti, che visitò la zona nel 1779, nella sua Memoria per servire alla storia della Diocesi di Massa e di Populonia afferma che la chiesa di San Quirico esisteva già nel 923 e che lì, oltre a pregare, si veniva battezzati e si amministravano i sacramenti. Il monastero sorse negli anni Quaranta dell’XI secolo, nei pressi dell’antica chiesa.

Per oltre un secolo non si hanno altre notizie, ma grazie al Cartulario del Monastero di San Quirico di Populonia – un insieme di sette pergamene che descrivono con 50 documenti affitti, cessioni, donazioni ecc. – si riesce a colmare l’intervallo di tempo che va dal 1029 al 1131.

Nel Cartulario i primi documenti testimoniano soltanto l’esistenza della chiesa dal 1029 al 1044, ma nel documento del 3 gennaio 1049 si nomina per la prima volta anche il monastero.

Prima dell’anno Mille però non si trova menzione alcuna di una intitolazione della chiesa a San Quirico. Le prime notizie sono quelle di una donazione effettuata nel 1035; del 1054 sono invece quelle riguardanti l’esistenza di un monastero, anche se l’area continua ad essere occasionalmente denominata romitorio. La chiesa passò per varie intitolazioni, a San Quirico e Santa Maria, San Salvatore (1073), San Nicola (1075), San Pietro, San Martino e San Benedetto (1078), Santa Maria e San Quirico (1084), finalmente dal 1101 al solo San Quirico.

XII – XIII secolo

Con il passare degli anni il prestigio e la ricchezza del monastero crebbe per merito delle cospicue donazioni delle famiglie signorili del tempo tra cui si distinguono alcuni membri della famiglia Aldobrandeschi. I monaci di San Quirico divennero così possessori di molti beni e, per timore che i loro possedimenti attraessero la cupidigia di alcuni vescovi, essi posero il loro monastero sotto la protezione della Sede Apostolica, dipendendo così unicamente dalla sua autorità. Infatti nel 1143 papa Celestino II, con bolla diretta all’abate del monastero, ne prese la tutela e protezione, confermando tutti i beni che al tempo formavano il patrimonio dei monaci.

Questo periodo aureo del monastero non durò molto: nel corso del Duecento si hanno i primi sintomi di crisi economica e vocazionale.

Nel corso del XII secolo il monastero si mostra florido, con un consistente patrimonio fondiario esteso fino alle colline, mentre un secolo dopo appare in profonda crisi patrimoniale e vocazionale, tanto che vi rimane un solo monaco che funge da abate, situazione che richiede l’intervento del papa (Innocenzo IV) e del vescovo (Ruggero) di Massa Marittima.

Nel 1234 Innocenzo IV aveva concesso il monastero agli eremiti di S. Maria di Rupecava sul Monte Pisano, ma la cosa non ebbe effetto; nel 1258 il vescovo Ruggero lo affidò ai Guglielmiti di Malavalle con la ratifica del papa Onorio IV, e San Quirico rimane a lungo in mano all’ordine, recuperando la primitiva vocazione eremitica, sino a fine Trecento, e si risolleva dalla profonda crisi, pur senza conoscere ulteriori progressi. A cavallo fra il XIII e il XIV secolo le decime imposte alla chiesa di San Quirico, di 4 lire, mostrano come il suo stato patrimoniale equivalesse a quello di una pieve importante come quella di Suvereto, ma, certamente, non all’altezza di un monastero di più grandi dimensioni.

L’economia stava cambiando, e si sviluppavano nuovi ordini religiosi, come gli ordini canonicali e le fondazioni ospedaliere, che attiravano donazioni. Neanche il passaggio di S. Giustiniano alle clarisse e di S. Mamiliano ai camaldolesi, nonché di San Quirico ai guglielmiti, servì a stabilizzare la condizione dei monasteri benedettini. Quanto a San Quirico, la potenza marinara di Pisa, egemone lungo la costa, si stava interessando maggiormente al nascente castello di Piombino e, semmai, alla baia di Baratti dove nel 1304 aveva costruito un nuovo molo; non era interessata alla sommità del promontorio.

XIV – XVI secolo

Nel frattempo, il promontorio, con il borgo di Piombino, va ad appartenere, a fine Trecento, alla neonata dinastia degli Appiani, i quali cercano anche di conferire un nuovo impulso demografico al territorio di Populonia, all’agricoltura e al commercio e mostrano un certo interesse verso il cenobio, che era passato successivamente sotto il patronato effettivo, se non canonico, dei Da Biserno, poi degli Aldobrandeschi.

Leone X nel 1517 concede agli Appiani il giuspatronato di alcune chiese, tra cui anche quello sull’abbazia con lo jus nominandi dell’abate. Fu nel periodo del loro patronato che si affermò anche la pratica di affidare gli affari del monastero a soggetti esterni, con effetti negativi per la sua gestione.

Nel secolo XVI seguono poche notizie relative al monastero, a parte alcuni atti notarili fatti in loco nel 1550, quando la chiesa doveva essere ancora efficiente. Il Vescovo della Diocesi di Massa Marittima – Piombino, Ventura Buralini, effettuò una visita pastorale nel 1567 e annotò che l’abazia, pur non essendo del tutto abbandonata, era coperta di rovi e spini. Il complesso monastico doveva essere già in rovina, la chiesa invece ancora funzionante. Questa fu l’ultima visita pastorale documentata; successivamente il luogo fu frequentato da animali selvatici e uomini che hanno lasciato tracce di fuochi. Dieci anni dopo, nel 1577, la chiesa e il monastero vengono descritti come ridotti a stalla, ricovero «all’animali bruti».

Le sue rendite passano al pievano di Piombino, insieme al titolo. Una curiosità: nel 1960 la chiesa di S. Antimo fu insignita del titolo abbaziale ad honorem, rispolverando la predetta unione perpetua, venuta meno nei secoli, fra la Chiesa Matrice di Piombino e l’Abbazia di San Quirico.

Quando nel 1595 Isabella Appiani avvia l’iniziativa di rifondare un monastero di clarisse nel territorio di Piombino, la sua prima opzione è per Populonia, probabilmente proprio nel sito dove era sorto il monastero di San Quirico.

Questo primo tentativo non ebbe effetto, e il monastero fu invece costruito in città, presso la chiesa di S. Antimo sopra i Canali. L’intitolazione stessa a S. Anastasia ci conferma la prima idea di realizzarlo presso l’antico San Quirico, dal quale nel 1047 erano passate le reliquie della stessa santa, dopo l’approdo al porto di Falesia, nel loro viaggio verso Pisa. Dopo di che, la decadenza fu totale. Nel 1779 il sito fu visitato dall’abate e storico Agostino Cesaretti, che descrive il luogo come desolato, caratterizzato dalle rovine di chiesa, monastero e torre.

Testo principale di riferimento: Luisa Dallai, Paesaggio e risorse: Il Monastero di San Quirico di Populonia, la pianura ed il promontorio di Piombino, in Un monastero sul mare. Ricerche archeologiche a San Quirico di Populonia (Piombino, LI) a cura di G. Bianchi e S. Gelichi, All’Insegna del Giglio 2016, pp. 89-108.