San Pasquale Baylón nacque il 16 maggio 1540, giorno di Pentecoste, a Torre Hermosa in Aragona, Spagna. Fin da bambino dimostrò una spiccata devozione verso l’Eucaristia, che sarà poi la caratteristica di tutta la sua vita religiosa. Fu pastore prima del gregge della famiglia, poi a servizio di altri padroni. La solitudine dei campi favorì la meditazione, il desiderio di spiritualità, la preghiera continua; prese anche a mortificarsi con lunghi digiuni e penitenze.
A 18 anni chiese di essere accolto nel convento di Santa Maria di Loreto, dei Francescani riformati detti Alcantarini da san Pietro d’Alcantara, riformatore dell’Ordine; ma non lo accettarono. Pur di rimanere nei dintorni del convento, entrò al servizio, sempre come pastore, del ricchissimo Martín García. Il signore, colpito da questo suo giovane dipendente, gli propose di adottarlo così da poterne fare il suo erede universale, ma lui oppose un deciso rifiuto, perché più che mai era deciso ad entrare tra i frati di san Francesco. Dopo due anni, nel 1560, i superiori lo ammisero nel convento di S. Maria di Loreto, dove fece la sua professione religiosa il 2 febbraio 1564. Non volle mai essere ordinato sacerdote, nonostante il parere favorevole dei superiori, perché non si sentiva degno: si accontentò di rimanere un semplice fratello laico.
Frate portinaio
I superiori adibirono per anni F. Pasquale ai vari servizi del convento, specialmente come portinaio, compito che espletò sempre con grande bontà. Sebbene così giovane, si acquistò una certa fama di santità per le virtù cristiane e morali, ma anche per fatti prodigiosi che gli vennero attribuiti. Fu favorito da doni straordinari dello Spirito Santo, tra cui quello della sapienza infusa; sapeva leggere e scrivere, anche se non era molto colto, e molti illustri personaggi ne richiedevano il consiglio; per di più compose un piccolo libro di definizioni e sentenze sulla reale presenza di Gesù nell’Eucaristia, per cui ricevette il soprannome di «Serafino dell’Eucaristia».
L’ultima Pentecoste
Per il suo desiderio di maggior perfezione, San Pasquale si sottoponeva a continue e pesanti mortificazioni e a penitenze sempre più numerose, al punto che la sua salute era ormai compromessa. Morì il 17 maggio 1592, il giorno dopo il suo cinquantaduesimo compleanno, presso il convento del Rosario a Villarreal, vicino Valencia. Come era accaduto il giorno della sua nascita, anche allora era Pentecoste.
Culto e iconografia
San Pasquale fu oggetto di particolare venerazione a Napoli, città soggetta alla dominazione spagnola. Il suo nome fu dato a generazioni di bambini in tutto il Sud Italia. Fu beatificato 26 anni dopo la morte, il 29 ottobre 1618, da papa Paolo V, e proclamato santo il 16 ottobre 1690 da papa Alessandro VIII. La sua appassionata devozione per l’Eucaristia ha ispirato nei secoli i tanti artisti che l’hanno raffigurato: nelle opere d’arte, come nelle immaginette devozionali, compare sempre nell’atto di adorare il Santissimo Sacramento nell’ostensorio.
Patronati ufficiali e tradizionali
Papa Leone XIII, il 28 novembre 1897, proclamò San Pasquale patrono delle opere eucaristiche e dei congressi eucaristici. Popolarmente si considera patrono anche dei cuochi e dei pasticcieri, in base ai suoi umili servizi svolti nel convento; secondo una tradizione, sarebbe l’inventore dello zabaione, il cui nome sembra derivare dal suo («San Bayon»); ma altra ipotesi fa derivare il nome da quello del Baglioni, cui pure viene attribuita l’invenzione nel 1471; o dal nome di una bevanda balcanica importata a Venezia, la zabaja.
Probabilmente per un’assonanza con il suo cognome («San Pasquale Baylonne, protettore delle donne»), viene infine invocato dalle nubili in cerca di marito e dalle donne in generale.
Altri santi dell’Eucaristia
S. Antonio da Padova e la mula
Secondo la tradizione, mentre S. Antonio si trovava nel 1223 a Rimini, un eretico, Bonisollo, lo sfidò a provare con un miracolo la presenza reale di Cristo nell’eucaristia: tenne per tre giorni a digiuno la sua mula, poi la portò in piazza mettendole davanti della biada; contemporaneamente sant’Antonio, con in mano l’ostia consacrata, portatosi davanti alla mula, diceva: «In virtù e in nome del Creatore, che io, per quanto ne sia indegno, tengo veramente tra le mani, ti dico, o animale, e ti ordino di avvicinarti prontamente con umiltà e di prestargli la dovuta venerazione». Come il santo ebbe finito di parlare, la mula, lasciando da parte il fieno, si inginocchiò davanti all’eucaristia e l’eretico si convertì.
S. Ugo di Lincoln e il cigno
Il 17 novembre si celebra la festa di Sant’Ugo vescovo di Lincoln, il primo certosino della storia ad essere canonizzato, nel 1220. Solitamente, pur essendo stato vescovo, l’iconografia lo raffigura con l’abito da certosino ed affiancato sempre da un cigno. La presenza della mitria è costante tranne che nel dipinto eseguito nel 1638 dallo spagnolo Francisco de Zurbaran, che raffigura Ugo accompagnato dal cigno ed in estatica ammirazione del calice da cui fuoriesce una figura di bimbo.
Questo perché egli ogni giorno celebrando la messa con estrema devozione verso il Santissimo Sacramento, vedeva ricompensato il suo fervore con la prodigiosa apparizione di Gesù Bambino. Per quanto concerne il cigno, si narra che all’indomani della sua elezione a vescovo di Lincoln, avvenuta nella abbazia di Westminster a Londra il 21 settembre 1186, Ugo durante una passeggiata fu seguito da un cigno bianco che da quel momento non lo abbandonò mai più. La leggenda racconta che il pennuto un giorno rifiutandosi di mangiare si sdraiò ai piedi del certosino ormai malato; il quale, comprendendo che si avvicinava il momento del suo trapasso, promise all’uccello di partire con lui per sempre, cosa che avvenne di li a poco. Inoltre l’animale sta a simboleggiare con le sue piume bianche la purezza e l’intelligenza della vita del santo.
Altro elemento iconografico è il modello della cattedrale di Lincoln che il santo regge in una mano, essendo stato l’artefice della sua ricostruzione dopo la distruzione avvenuta a seguito di un terremoto nel 1185. Ugo era inoltre, da buon certosino, un grande amante dei libri, e gli si attribuisce al riguardo questo splendido concetto: «Quando siamo in pace i libri sono il nostro tesoro e la nostra delizia; quando combattiamo sono le nostre armi; quando abbiamo fame, ci servono come nutrimento; e quando siamo ammalati sono il nostro rimedio. Tutti i religiosi devono fare uso di questi soccorsi, ma quelli che ne hanno più bisogno sono coloro che vivono in solitudine».
Santa Chiara d’Assisi
L’iconografia tradizionale raffigura Santa Chiara d’Assisi con un ostensorio in mano, in atto di respingere dal monastero le truppe saracene, nel 1240, per difendere le consorelle. I saraceni in questione non rappresentavano l’islam all’assalto contro il cristianesimo, ma erano al soldo del cristiano (benché scomunicato) imperatore Federico II di Svevia. Questo miracolo eucaristico è citato nella Leggenda di Santa Chiara Vergine, redatta nel 1256, probabilmente da Tommaso da Celano; ma la narrazione assume un tono completamente diverso da quello che l’iconografia potrebbe suggerire. La leggenda racconta:
«Erano stanziate lì, per ordine imperiale, schiere di soldati e nugoli di arcieri saraceni, fitti come api, per devastare gli accampamenti e per espugnare le città. E una volta, durante un assalto nemico contro Assisi, città particolare del Signore, e mentre ormai l’esercito si avvicinava alle sue porte, i feroci Saraceni irruppero nelle adiacenze di San Damiano, entro i confini del monastero, anzi fin dentro al chiostro stesso delle vergini. Si smarriscono per il terrore i cuori delle Donne, le voci si fanno tremanti per la paura e recano alla Madre i loro pianti.
Ella, con impavido cuore, comanda che la conducano, malata com’è, alla porta e che la pongano di fronte ai nemici, preceduta dalla cassetta d’argento racchiusa nell’avorio, nella quale era custodito con somma devozione il Corpo del Santo dei santi. E tutta prostrata in preghiera al Signore, nelle lacrime parlò al suo Cristo: “Ecco, o mio Signore, vuoi tu forse consegnare nelle mani dei pagani le inermi tue serve, che ho allevato per il tuo amore? Proteggi, ti prego, Signore, queste tue serve, che io ora, da me sola, non posso salvare”.
Subito una voce, come di bimbo, risuonò alle sue orecchie dal Tabernacolo: “Io vi custodirò sempre!”. “Mio Signore, aggiunse, proteggi anche, se ti piace, questa città, che per tuo amore ci sostenta”. E Cristo a lei: “Avrà da sostenere travagli, ma sarà difesa dalla mia protezione”. Allora la vergine, sollevando il volto bagnato di lacrime, conforta le sorelle in pianto: “Vi do garanzia, figlie, che nulla soffrirete di male; soltanto abbiate fede in Cristo!”.
Né vi fu ritardo: subito l’audacia di questi, è presa da spavento; e abbandonando in tutta fretta quei muri che avevano scalato, furono sgominati dalla forza di colei che pregava. E subito Chiara ammonisce quelle che avevano udito la voce di cui sopra ho parlato, dicendo loro severamente: “Guardatevi bene, in tutti i modi, dal manifestare a qualcuno quella voce finché io sono in vita, figlie carissime”».
Come si vede dallo stesso racconto, non si parla di ostensorio (sarebbe stato impossibile per Santa Chiara, anche se monaca e badessa, impugnare con le sue mani ciò che solo ai sacerdoti era lecito toccare) ma di una teca preziosa contenente le Specie eucaristiche. Chiara non sbandiera l’Eucaristia brandendola davanti agli aggressori, ma parla in un intimo colloquio a Gesù eucaristico. Affida tutto nelle mani del Signore. Non si ostenta, ma difende lo consorelle e la città con la preghiera. Un insegnamento di vita.