San Giuseppe da Copertino come studente valeva poco. Aveva trascorso un’infanzia ed una fanciullezza in condizioni terribili e quando si presentava agli esami sapeva poco o nulla. Eppure gli andavano sempre bene: per questo è patrono degli esaminandi. Intendiamoci, non era sua la colpa della sua scarsa preparazione: faceva il possibile, si impegnava, ma quelle cose difficili non gli entravano in testa…
Nato in una stalla
Giuseppe Maria Desa, il futuro San Giuseppe da Copertino, nacque il 17 giugno 1603 in una stalla, dove la famiglia, caduta in miseria, era andata ad abitare. Il padre morì presto, gravato dal dispiacere di aver perso tutti gli averi per aver fatto da garante ad un amico che era fallito. La vedova e i figli rimasero in totale miseria.
Giuseppe si dimostrò incapace d’imparare un mestiere (i compaesani lo chiamavano «Boccaperta» per la sua abituale distrazione). Quando provò a fare il falegname e il calzolaio fu un disastro; poteva fare solo il garzone in una bottega. Oltre tutto, il creditore del padre ottenne dal Supremo Tribunale di Napoli che Giuseppe, unico figlio maschio, una volta raggiunta la maggiore età, fosse obbligato a lavorare senza paga, fino a saldare il debito del genitore. In pratica, una vera e propria schiavitù. Avrebbe potuto farsi sacerdote o frate per sfuggire a questa condizione; e la cosa non doveva dispiacergli, visto che in età di otto anni aveva già avuto la sua prima visione.
Rifiutato da tutti
La totale mancanza di istruzione non gli dava accesso al sacerdozio; gravi ragioni di salute gli avevano impedito di frequentare una scuola. Farsi frate, invece, non richiedeva il requisito della cultura; oltre tutto, Giuseppe aveva due zii che erano frati francescani. A 17 anni si rivolse al convento dei Francescani Conventuali di Copertino dove lo zio paterno era stato guardiano. Dopo un periodo di prova fu mandato via, «per la sua poca letteratura, per semplicità ed ignoranza». Anche i Francescani Riformati dopo un po’ lo rifiutarono.
I Cappuccini di Martina Franca lo tennero otto mesi, dal 15 agosto 1620 al marzo 1621, ma procurava continui disastri per la sua inettitudine, aggravata da improvvise estasi durante le quali lasciava cadere le stoviglie. Fu rimandato a casa, sostenendo che non era adatto né alla vita spirituale né ai lavori manuali: «non idoneo e inetto a qualsiasi mansione». L’intensità della sua vita mistica sfuggiva a tutti.
Uscì dal convento rivestito di pochi stracci, fu scambiato per un poco di buono, fu persino assalito dai cani e quasi bastonato dai pastori. Fu respinto dallo zio paterno e la madre lo maltrattò, rimproverandogli di essersi fatto cacciare dal convento. Per lui non c’era posto neppure in casa.
Frate conventuale, aspirante al sacerdozio
Finalmente, grazie all’interessamento dello zio materno, Giovanni Donato Caputo, Giuseppe riuscì a farsi accettare di nuovo dai Conventuali della Grottella presso Copertino, con la motivazione di dover sfuggire alla condanna del Tribunale. I frati conventuali si decisero a prendere a cuore la sua situazione e lo ammisero come oblato. Le guardie lo cercavano per fargli pagare i debiti del padre, per cui bisognava anche tenerlo nascosto. Visse in un bugigattolo nei pressi della soffitta del convento. Arrivò finalmente il giorno di essere accolto tra i frati come terziario e infine come fratello laico: questa condizione gli garantiva l’immunità nei confronti della legge secolare. Era l’anno 1625, Giuseppe aveva 22 anni. Fu addetto ai lavori pesanti e alla cura della mula del convento.
Ahi, gli esami…
Quando Giuseppe espresse il desiderio di diventare sacerdote, sapeva appena leggere e scrivere. Tuttavia intraprese gli studi con volontà, pur ricavandone poco. Lo zio materno lo aveva aiutato con il latino e le altre materie elementari. Già questo fu difficile: Giuseppe spesso si incantava e bisognava rifilargli un calcio per riscuoterlo. Riuscì ugualmente a dimostrare impegno e fu accettato come chierico (studente). Ostiariato, esorcistato, lettorato… Ma arrivò il momento in cui doveva superare l’esame per il diaconato davanti al vescovo. Il vescovo, aprendo a caso il libro, gli domandò il commento delle frase: «Benedetto il grembo che ti ha portato», che era proprio l’unico brano su cui era riuscito a prepararsi.
Trascorsi i tre anni di preparazione al sacerdozio, bisognava superare l’ultimo e più difficile esame. Tutti gli studenti, tranne Giuseppe, conoscevano il programma alla perfezione; il vescovo interrogò i primi, che risposero brillantemente. Convinto che anche gli altri fossero altrettanto preparati, li ammise al sacerdozio tutti in blocco. Era il 4 marzo 1628.
Per la seconda volta Giuseppe aveva superato gli esami in modo che possiamo definire miracoloso. Perciò si può dire che se fu ordinato sacerdote lo fu per volere di Dio.
Sacerdote e mistico
San Giuseppe da Copertino, anche da sacerdote, si definiva fratel Asino, per il suo impaccio nel trattare con gli altri, per la sua incoerenza logica, per il suo essere maldestro con gli oggetti. Tuttavia, dopo due anni di terribile aridità spirituale, si accentuarono i fenomeni delle estasi con levitazioni… La gente cominciava a venerarlo come un santo, c’era chi gli tagliava pezzi dell’abito o del cordone. Faceva miracoli: col tocco della sua mano gli infermi guarivano…
Processato
Per sottrarlo all’attenzione dei fedeli, i superiori lo mandarono in vari conventi dell’Italia centrale. Inutilmente. Arrivò nell’ottobre 1638 l’ordine del Santo Uffizio di presentarsi a Napoli al tribunale ecclesiastico. L’accusa: millantata santità! Le sue opere sarebbero state derivate da virtù diabolica e non da santità di vita.
Nel monastero napoletano di S. Gregorio Armeno, davanti ai giudici, Giuseppe ebbe un’estasi, rimanendo sospeso per aria. I giudici si convinsero, archiviarono il caso, ma mandarono Giuseppe a Roma perché lo esaminasse il Ministro generale. Questi lo portò davanti alla Congregazione romana del Santo Uffizio, alla presenza del papa Urbano VIII. Il Santo Uffizio lo assolse dall’accusa di abuso della credulità popolare ma lo confinò in un luogo isolato dopo l’altro, lontano da Copertino e sotto sorveglianza del tribunale. San Giuseppe da Copertino accettò sempre tutto nello spirito della santa obbedienza, anche quando gli impedirono di pregare con i suoi confratelli.
Nel 1656 papa Alessandro VII mise fine al suo peregrinare da un convento all’altro, destinandolo ad Osimo dove rimase per sette anni fino alla morte, continuando ad avere estasi, a sollevarsi da terra e ad operare prodigi. Morì il 18 settembre 1663 a 60 anni; fu beatificato il 24 febbraio 1753 da Benedetto XIV e proclamato santo il 16 luglio 1767 da Clemente XIII.
Oltre che degli esaminandi, San Giuseppe da Copertino, per i suoi voli estatici, è considerato patrono degli aviatori cattolici statunitensi, dei passeggeri di mezzi volanti e persino degli astronauti.
Un bel film del 1962, Cronache di un convento, QUI. Anche se il film appare alquanto semplicistico, è diretto da un regista di tutto rispetto, Edward Dmytryk. È anche interpretato da grandi attori come Maximilian Schell nella parte di San Giuseppe da Copertino, Lea Padovani ed Arnoldo Foà nel ruolo dei suoi genitori; inoltre da Ricardo Montalbán, Carlo Croccolo, Odoardo Spadaro. Musiche di Nino Rota!
Caratteristiche di San Giuseppe da Copertino
San Giuseppe da Copertino, che si definiva «il frate più ignorante dell’Ordine Francescano», amava i lavori manuali, aiutava in cucina, faceva le pulizie, coltivava l’orto e usciva per la questua. Amava i poveri, e non aveva paura di alzare la propria voce quando vedeva gli abusi dei potenti. Aveva anche familiarità con gli animali, con cui conversava. Era provvisto di senso dell’umorismo: come egli stesso si era identificato in fratel Asino, così identificava le altre persone nelle sembianze dell’animale che meglio corrispondeva alle loro caratteristiche.
Possedeva il dono della scienza infusa, scrutava le coscienze e dava consigli saggi a chi si rivolgeva a lui. Ebbe molti incontri anche con persone di cultura elevata, parlando con le quali esprimeva una teologia semplice ma efficace. Riuscirono a incontrarlo, nonostante le restrizioni che gli erano state imposte, Giovanni Casimiro Waza che diventò re di Polonia, Giovanni Federico di Sassonia che abiurò il luteranesimo e si fece fervente missionario, e l’Infanta suor Maria di Savoia che mantenne con lui un consistente rapporto epistolare. Un professore dell’Università romana di S. Bonaventura dichiarò: «L’ho sentito parlare così profondamente dei misteri di teologia, che non lo potrebbero fare i migliori teologi del mondo».
Ad un grande teologo francescano che chiedeva come conciliare gli studi con la semplicità del francescanesimo, San Giuseppe da Copertino rispose:
«Quando ti metti a studiare o a scrivere ripeti:
Signor, tu lo Spirito sei
et io la tromba.
Ma senza il fiato tuo
nulla rimbomba».
Dalle «Massime» di san Giuseppe da Copertino
Tre sono le cose proprie di un religioso: amare Dio con tutto il cuore, lodarlo con la bocca, e dare sempre buon esempio con le opere. Nessuna persona spirituale o religiosa può essere perfetta senza l’amore di Dio. Chi ha la carità, è ricco e non lo sa; chi non ha la carità, ha una grande infelicità.
La grazia di Dio è come il sole, che splendendo su gli alberi e le loro foglie, li adorna ma non li contamina, li lascia nel loro essere, senza minimamente alterarli. Così la grazia di Dio, illuminando l’uomo, lo adorna di virtù, lo fa splendente di carità, lo rende bello e vago agli occhi di Dio; non altera la sua natura, ma la perfeziona.
Dio vuole, dell’uomo, la volontà, poiché questi non possiede altro di proprio, pur avendola ricevuta quale prezioso dono dal suo Creatore. Difatti quando si esercita in opere di virtù, la grazia di operare e tutti gli altri doni ch’egli possiede, vengono da Dio: l’uomo, di suo, non ha che la volontà; perciò Dio si compiace sommamente, quando egli, rinunciando alla propria volontà, si mette completamente nelle sue mani divine.
Come un albero, dopo essere stato oggetto delle cure più assidue, in fine, carico di frutti, ne dà a chi ne vuole, così l’uomo che comincia a camminare nella via di Dio, deve sforzarsi con ogni diligenza di crescere e progredire nel servizio del Signore, spandendo rami di virtù e producendo fiori profumati di santità e frutti di opere sante, per modo che tutti gli uomini, dietro il suo esempio, apprendano anch’essi a camminare nella via di Dio.
Il patire per amore di Dio è un favore singolarissimo, che il Signore concede a coloro che ama. È maggior grazia il patire in questa vita che non il godere, poiché il Signore vuole essere ripagato con la stessa moneta che egli ha sborsato per noi: Gesù ha tanto sofferto per noi, e vuole che anche noi soffriamo con lui. O sei oro, o sei ferro: se sei oro, la sofferenza ti purifica, se sei ferro, la sofferenza ti toglie la ruggine.
I servi di Dio devono fare come gli uccelli, i quali scendono a terra per prendere un po’ di cibo, e poi subito si risollevano in aria. Similmente i servi di Dio possono fermarsi sulla terra quanto comporta la necessità del vivere umano, ma poi subito, con la mente, devono sollevarsi al cielo per lodare e benedire il Signore. Gli uccelli, se scorgono del fango sul terreno, non si calano sopra, oppure lo fanno con molta cautela per non imbrattarsi. Così dobbiamo fare noi: mai abbassarci alle cose che macchiano l’anima, ma sollevarci in alto e con le nostre opere lodare il Signore, sommo Bene.