
L’impero romano fu il più grande stato schiavista della storia, ma la schiavitù, di fatto, gli sopravvisse: i barbari avevano schiavi, li avevano i vichinghi, ma li avevano anche, nel Medioevo, i ricchi signori cristiani che li compravano dai mercanti genovesi e veneziani. Con le razzie piratesche, provenienti da un contesto non cristiano, rinacque e prese forza in Europa una istituzione che il cristianesimo, almeno spiritualmente, aveva abolito, quella della schiavitù.
La schiavitù nel Medioevo
Gli schiavi dei cristiani inizialmente provenivano dall’Asia centrale ed erano tatari e circassi; fra Quattrocento e Cinquecento il mercato cambia e si sposta sull’Africa. La pirateria fece il resto: le navi corsare attaccavano le navi cristiane ed anche i paesi costieri e facevano schiavi che andavano sul mercato in Oriente, ma i cristiani ricambiavano con zelo la cortesia e se facevano prigionieri i saraceni li riducevano in schiavitù.
Due santi contro la schiavitù:
San Giovanni de Matha e San Pietro Nolasco
San Giovanni de Matha e i Trinitari

Ci volle un santo, San Giovanni de Matha (1154-1213; memoria liturgica il 17 dicembre), primo dei grandi fondatori di ordini mendicanti, per contrastare il commercio di vite umane. Nobile francese, studiò teologia a Parigi e fu ordinato sacerdote. Durante la celebrazione della prima Messa gli sarebbe apparso un angelo che gli avrebbe ispirato la fondazione di un ordine votato al riscatto dei prigionieri. Fondò dunque nel 1189, insieme a Felice di Valois, una comunità consacrata alla Trinità e al riscatto degli schiavi. A Roma, nel 1209, incontrò San Francesco d’Assisi. Il motto dell’ordine era: «Gloria a te, Trinità, e agli schiavi libertà».
L’attività dell’ordine nei secoli
I dati sono frammentari, ma nel corso dei secoli l’ordine ha liberato come minimo più di 100.000 persone dalla prigionia. L’ultimo riscatto attestato risale al 1905 in Somalia.Dopo il Vaticano II, l’ordine trinitario ha rivisitato il carisma delle origini professando:
- la Santissima Trinità quale fonte inesauribile della carità che si traduce nel servizio della redenzione e della misericordia;
- la vocazione trinitaria come chiamata ad essere testimoni di Cristo, mostrando che Dio è amore, libertà, comunione, Trinità;
- il servizio di liberazione mediante l’ascolto delle nuove forme di schiavitù (prostituzione, alcolismo, tossicodipendenza, ecc.);
- la liberazione degli indigenti dalla povertà.
L’ordine di San Giovanni de Matha a Livorno
A Livorno, nella chiesa di S. Ferdinando popolarmente detta <<Crocetta>> e affidata sin dalla sua fondazione ai padri trinitari, un bel gruppo scultoreo di Giovanni Baratta mostra la visione di S. Giovanni de Matha: un angelo che spezza le catene di due schiavi. Uno è bianco, l’altro è nero: perché la schiavitù è un orrore uguale per tutti.
San Pietro Nolasco e i Mercedari

All’opera dei Trinitari si affiancò, nel 1218, quella dell’ordine di S. Maria della Mercede o Mercedari, istituito da S. Pietro Nolasco, un mercante che a Barcellona venne a contatto con il fiorente mercato degli schiavi e, sotto l’impulso di una rivelazione avuta dalla Vergine, si dedicò alla loro liberazione. I Mercedari, oltre ai tre voti di castità, povertà e obbedienza, avevano un quarto voto, di redenzione, consistente nell’impegno a sostituire con la propria persona nella schiavitù il cristiano in pericolo di rinnegare la fede. La storia ricorda almeno 100.000 cristiani da loro liberati. L’ultimo riscatto, di 830 prigionieri catturati in Sardegna, avvenne a Tunisi nel 1798; oggi, come i Trinitari, i Mercedari si votano alla lotta contro le moderne forme di schiavitù.
Il bagno penale di Livorno

Per dare un’idea dell’entità del fenomeno della schiavitù ancora nel XVII secolo, si pensi che un intero grande edificio, il Bagno dei forzati, o Bagno delle galere, era destinato a Livorno, tra il porto e piazza Grande, alla custodia di centinaia di schiavi mori: non per niente fu fatto costruire nel 1598 da quello stesso granduca Ferdinando I de’ Medici che si fece raffigurare, nel monumento dei Quattro Mori, come dominatore dei mari e trionfatore sui pirati barbareschi. In una sorta di ossimoro edilizio, nello stesso edificio trovò sede anche la tipografia Coltellini, dove venne stampata la prima edizione del Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria (1764) e poi, nel 1770, la terza edizione dell’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert.
Schiavitù e libertà
Il complesso era una prigione destinata ai turchi catturati e fatti schiavi, ma vi erano presenti anche detenuti toscani. I prigionieri lavoravano nel porto e tornavano nelle loro celle per la notte; inoltre potevano aprire botteghe in città e vendere i loro manufatti, non solo, ma disponevano anche di un locale ad uso moschea con un proprio ministro. Nei primi anni del Seicento arrivarono anche a 2000 unità.
Pare che Pietro Tacca, per scolpire i Quattro Mori, prendesse a modello i mori reclusi nel Bagno penale di Livorno, un turco di nome Morgiano e un padre (di nome Alì Salettino) imprigionato con i suoi due figli appena sbarcati da una galea. Tutto questo, ripeto, in almeno apparente contraddizione con la tradizione liberale di Livorno, espressa con l’emanazione, da parte dello stesso Ferdinando I, delle leggi Livornine (1591 e 1593), che garantivano libertà alle genti di ogni etnia e religione:
«A tutti Voi Mercanti di qualsivoglia Nazione, Levantini, Ponentini, Spagnuoli, Portughesi, Grechi, Tedeschi, Italiani, Ebrei, Turchi, Mori, Armeni, Persiani, dicendo ad ognuno di essi salute… per il suo desiderio di accrescere l’animo a forestieri di venire a frequentare lor traffichi, merchantie nella sua diletta Città di Pisa e Porto e scalo di Livorno con habitarvi, sperandone habbia a resultare utile a tutta Italia, nostri sudditi e massime a poveri».
Molto pragmaticamente, forse si potrebbe tradurre: benvenuti a tutti, purché portiate denaro!
I «mori» a Livorno

Non è neppure un caso che proprio a Livorno, nella chiesa popolarmente detta «Crocetta», trovasse sede l’ordine dei Trinitari, nato con lo scopo precipuo della liberazione dei cristiani dalla schiavitù del mori: tuttavia, se ben si osserva il gruppo statuario di Giovanni Baratta che vi si trova, «Gli schiavi liberati», ci accorgeremo che uno dei due ha lineamenti inequivocabilmente moreschi, a significare che la schiavitù è tale per tutti, e grida giustizia al cospetto di Dio, con buona pace dei «Quattro Mori», statue in bronzo di pirati barbareschi tuttora incatenati sotto la statua di Ferdinando I liberatore delle coste tirreniche dalle incursioni dei razziatori mediante l’ordine dei Cavalieri di S. Stefano. Pare che Pietro Tacca, lo scultore, si fosse recato al Bagno penale presso la Fortezza vecchia per studiare le fattezze dei prigionieri saraceni, che vi erano presenti in gran numero.
Politicamente scorretti, ma…
Durante la seconda guerra mondiale, sotto i bombardamenti, anche i Quattro Mori dovettero sfollare, prima al Cisternino e poi a Poggio a Caiano, per tornare infine, nel 1950, al proprio posto. A guardarli adesso, con una nuova sensibilità che non consente più l’etnocentrismo, e che deve opporsi drasticamente ad ogni forma di risorgente razzismo, i Quattro Mori sembrano un inno alla schiavitù e un monumento alla barbarie dell’uomo bianco. Il Politicamente corretto, certamente, li rinnega: ma provate a toglierli ai livornesi… Prendiamoli per quello che dovevano essere nel loro contesto, una celebrazione della liberazione dai pericoli del mare.
Ogni «moro» è di età e di etnia diversa e almeno tre hanno un nome che è stato tramandato (Morgiano, il più giovane; Alì Salettino, uomo maturo; Alì Meliocco, anziano); si dice che esista un punto da cui si vedono contemporaneamente i nasi di tutti e quattro, ma io non l’ho mai scoperto. Ricordo però che quando andai, bambina, all’udienza di Giovanni XXIII con la diocesi di Livorno, questa fu menzionata e salutata da papa Giovanni in questi termini: «C’è qui la diocesi di Livorno, bella città, ci sono i Quattro Mori…». Per un livornese, sentir dire dal Papa che ha visto i Quattro Mori… dé, – permettete – è quasi il paradiso in terra!