
«Anna concepì e allo scoccare dell’anno partorì un figlio. Lo chiamò Samuele, che significa: “Ho chiesto (sheʾiltiv) al Signore per lui”» (1 Samuele 1,20).
È ancora audace l’iniziativa di Anna quando è lei stessa, e non il marito, ad imporre il nome al figlio tanto atteso; ed è un nome ricco di risonanze particolari. Lo chiama Samuele, perché lo ha «chiesto» (ma potrebbe anche significare «preso in prestito») al Signore, giocando sui due significati della radice .ל. א. ש – chiedere e prendere in prestito. Questi due significati, infatti, illuminano il dramma della donna che «ha chiesto» e avuto, ma come «preso in prestito», un figlio da Dio, e dovrà mantenere la sua promessa di lasciare che Dio reclami per sé il suo bambino e riabbia il suo “prestito”.
Samuele: Il figlio prestato
Inizialmente, Anna si aggrappa al figlio atteso da tempo e ritarda il pellegrinaggio a Silo per posticipare l’adempimento della sua promessa a Dio:
«Anna non salì. Disse a suo marito: “Quando il bambino sarà svezzato, lo condurrò; perché, quando sarà comparso davanti al Signore, dovrà rimanere lì per sempre”» (1 Samuele 1,22).
E infatti, quando questo avverrà, la sua gratitudine venata di rammarico si rifletterà in considerazioni in cui utilizza ulteriormente le varie possibilità della radice ל. א.ש.:
«Per questo bambino ho pregato; e il Signore mi ha concesso la mia richiesta (sheʾelati) che gli ho chiesto (shaʾalti). Perciò anch’io l’ ho prestato (hishʾiltihu) al Signore, perché per tutta la sua vita sarà in prestito (shaʾul) dal Signore». [Oppure: «è prestato al Signore»] (1 Samuele 1,27-28).
Il suo sentimento di madre sta rovesciando la situazione iniziale: in precedenza, Anna aveva ammesso che il bambino era un “prestito” a lei fatto da Dio, ma dopo tre anni di allattamento e cure sembra dire che sta “prestando” lei il bambino a Dio, esprimendo attraverso il suo ingegnoso gioco sulla radice ebraica ל.א.ש. gli umanissimi cambiamenti di umore e di stato dalla sterilità alla maternità al dolore della separazione dal suo bambino.
Samuele è il figlio prestato, ma chi ha prestato il figlio a chi?
Da genitori, dovremmo sapere che i figli non ci appartengono: appartengono a se stessi e a Dio. Ci sono affidati perché ne abbiamo cura e li facciamo crescere, ed abbiano la loro vita indipendente. Molte madri non recidono mai psicologicamente il cordone ombelicale, e sentono e continuano a sentire il figlio come una propaggine di loro stesse. Non è così, non è mai così. Un rapporto di questo tipo sarebbe solo morboso. Anna si trova di fronte alla necessità di restituire al Signore Samuele, il figlio che Dio le ha prestato. Adesso è la sua volta: è lei a dover prestare il figlio al Signore, ovvero offriglielo per il suo servizio e il servizio degli uomini. È giusto così: il figlio non è mai stato “suo”, deve vivere la propria vita e fare la propria strada.