
Un salto nel buio. È quello che Abramo si sente chiedere, molto tempo dopo che Dio gli aveva rivolto la promessa: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle… Tale sarà la tua discendenza» (Gn 15,5).
Possiamo immaginare Abramo che esce da questa esperienza di incontro notturno con Dio con gli occhi pieni di stelle. Aveva espresso il suo dubbio, il suo rammarico, la sua amarezza, ma la rassicurazione divina era stata piena, limpida, luminosa come il cielo stellato.
Il verbo della fede
Abramo è il padre di tutti i credenti. Il verbo ’aman / credere, di così fondamentale importanza nella Bibbia, compare per la prima volta in relazione ad Abramo: «Ed egli credette al (o nel) Signore» (Gn 15,6). Lo splendore di quelle stelle lo avrà accompagnato per tutta la vita, un altro quarto di secolo prima di vedere il compimento della promessa; e altri sette lustri per vedere il figlio della promessa divenuto uomo. Ancora questo splendore negli occhi, e poi… «Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, va’ nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò» (Gn 22,2).
Ora, Abramo aveva indubbiamente molto penato prima di arrivare a questo punto; due successivi rapimenti della sposa; il dissidio col nipote e poi il suo sequestro, la guerra e il recupero di Lot; la prolungata sterilità della moglie, la discordia fra le donne… Mettiamo pure, nella sua storia, anche il dolore per le nefandezze che venivano commesse a Sodoma, dove lo straniero veniva considerato merce da usare e non ospite sacro da accogliere e servire. Il cap. 19, che narra la distruzione di Sodoma, è pieno di violenza, e il mondo in cui vive Abramo è un mondo duro. Tutto comunque viene superato, affanno dopo affanno, come in una corsa ad ostacoli. Ma per questo atleta della fede non è finita: adesso gli si chiede lo sforzo supremo, l’estremo sacrificio.
Il racconto del sacrificio di Isacco, nel capitolo 22 del libro della Genesi, è costituito da una narrazione in apparenza assai semplice e in realtà assai complessa e tutta da capire. Perché qui non si tratta di una sofferenza permessa da Dio. Questa è inflitta.
Dio mette alla prova
Come è possibile che Dio volesse mettere alla prova Abramo? Non è l’Onnisciente? Non lo sa, da sempre e per sempre, che cosa c’è nel cuore di ogni persona? Perché infliggere una tortura simile ad un brav’uomo che aveva sempre agito in obbedienza alla divina volontà?
Certo, Abramo è un giusto, ma nella Bibbia essere giusti non significa essere perfetti. Essere giusti significa cercare di mettersi nel giusto rapporto con Dio; e da questo deriverà anche il cercare di mettersi in rapporti di giustizia con gli altri; ma non significa non sbagliare mai, non peccare mai. E Abramo i suoi difetti li ha: non dimostra molto coraggio nell’episodio del rapimento della sposa, anzi… arriva ad addomesticare la verità per salvarsi la vita. Si dimostrerà ingiusto nei confronti della schiava che gli ha dato un figlio, cacciandola dall’accampamento insieme al ragazzo. Tuttavia, agli ordini divini non ha mai mancato di obbedire prontamente. Che senso ha chiedergli questa ulteriore, atroce prova? Offrire in olocausto il figlio tanto amato? Dio già lo sapeva che Abramo anche stavolta avrebbe obbedito; perché allora questo gioco tanto crudele quanto gratuito?
E le richieste divine sono taglienti. Notate la precisione sempre maggiore con cui questo Dio designa Isacco «tuo figlio, il tuo unico, che tu ami», ad evidenziare drammaticamente la gravità del sacrificio. «È come se il figlio fosse strappato membro a membro dal cuore del padre e questi debba abbandonare pezzo a pezzo le sue speranze» (RUDOLF KILIAN, Il sacrificio di Isacco, Paideia, Brescia 1976, p. 64). Con la stessa specificazione puntigliosa la vocazione aveva strappato Abramo alla sua terra, alla sua parentela, alla casa di suo padre (Gn 12,1), staccandolo dalle sue radici; ma ora la richiesta va in direzione del futuro.
La vita umana è sacra
Innanzi tutto, questo racconto delle origini mette in luce che Dio non vuole i sacrifici umani. Israele viveva allora, e vivrà per molti secoli, in un tipo di cultura in cui i sacrifici umani erano praticati; anzi, ad essere sacrificati erano proprio i figli. Si trattava di un rito magico; sacrificare ad una divinità ciò che di più prezioso l’uomo possedesse significava propiziarsela e forzarla a fare la volontà dell’offerente, come a dire: Guarda che cosa ho fatto per te, adesso tu farai quello che voglio io. Il sacrificio umano era il più pregiato, quindi era appetibile per ottenere l’esaudimento dei propri desideri. Quello che per noi è un orrore inconcepibile, per Abramo come per i suoi contemporanei era una prassi normale e diffusa.
Il rifiuto, che Dio manifesta, del sacrificio del figlio, vuole precisamente vietare questa abominevole usanza. Ma c’è di più.
L’amico di Dio
Quanto abbiamo detto può in parte attutire la crudezza della richiesta, ma non risolve il problema. Perché infliggere una simile sofferenza al proprio amico? Nel capitolo 18, nell’episodio dell’intercessione di Abramo per Sodoma, Dio gli usa proprio la confidenza che si riserva ad un amico. Ma questo non lo mette al riparo dalla sofferenza, anzi… Mi viene in mente una frase che il Signore disse alla grande, e grande sofferente, Teresa d’Avila, con la risposta che ne ebbe:
«Signore, dopo tante noie, ci voleva anche questo guaio!». Dio le rispose: «Teresa, io tratto così i miei amici». E lei, di rimando: «Ah, Dio mio, ora capisco perché ne avete così pochi!» (cfr. I Fioretti di Teresa d’Avila a cura di Joseph Gicquel, Città Nuova 2005, p. 115).
Abramo, a quanto pare, non poteva aspettarsi altro. Ma sentirsi richiedere indietro il figlio della promessa, quasi che Dio si rimangiasse tutto il suo futuro di padre di popoli…
Il senso biblico della prova

Appunto, il suo futuro. Ecco il senso del racconto: sta tutto nel concetto di prova, che noi fraintendiamo completamente.
Non dobbiamo pensare che la prova biblica sia un test avente lo scopo di verificare le capacità del personaggio: Dio le sa già. È il personaggio biblico che le sa, e non le svilupperebbe se non gli fosse chiesto di farlo. L’analogia della prova biblica non è col test, ma con la prova atletica. Se l’atleta non si sforzasse sempre di più, non crescerebbe mai sportivamente. Se l’asticella non fosse messa sempre più su, l’atleta non arriverebbe sempre più in alto.
Così è la prova biblica: è una difficoltà che fa crescere. In che modo cresce Abramo con questa prova suprema della fede? Al momento della vocazione, Abramo si era sentito chiedere di rinunciare alle sicurezze del proprio passato e del proprio presente, e di intraprendere un’avventura col suo Dio.
I verbi sono tutti al futuro: mostrerò, farò, benedirò… Abramo nelle mani non stringe niente; dovrà aspettare 25 anni prima di vedere adempiuta la promessa del Signore, quella che gli apre il futuro di padre di moltitudini. Adesso, si sente chiedere di rinunciare proprio a questo futuro, di restituire a Dio il figlio della promessa. Anche qui un terribile verbo al futuro: «su un monte che io ti dirò»! E Abramo obbedisce crescendo nella fede. La sua vita, da una corsa ad ostacoli, si è trasformata in un salto nel buio. Ma forse Abramo ha ancora negli occhi le stelle di quella sua prima notte a colloquio con il Signore. Rinuncia al futuro, e per di più al futuro promesso da Dio; in questo modo, però, lo riaccoglie, e lo riaccoglie per sempre.
Il Dio di misericordia
Possiamo anche cogliere un altro senso nella crescita spirituale di Abramo. Dai tempi più antichi, la tradizione giudaica ha interpretato i due principali nomi divini come espressione dell’attributo del rigore (Midat haDin) e dell’amore (Midat haChesed).
Il Dio da cui Abramo sente la richiesta di sacrificare il figlio è chiamato col nome di Elohim, nome comune, che nell’ebraismo rappresenta la giustizia, il rigore di Dio. La richiesta è tremenda. Il Dio che gli ferma la mano rifiutando il sacrificio è chiamato Jhwh, nome proprio del Dio di Israele, che nell’ebraismo rappresenta l’attributo della misericordia. Non è dunque Dio a mutare il proprio proposito (in effetti sarebbe assurdo), ma sarebbe Abramo a comprendere che quel Dio che egli adorava con tremore è invece il Dio di ogni misericordia e tenerezza.
Lo spossessamento di sé
Ma un mutamento si è introdotto anche nel rapporto fra Abramo e il figlio. Questi, «suo figlio», è divenuto, nelle parole del messaggero celeste, «il ragazzo» (v. 12), cancellando ogni traccia di possessivo. In realtà, è il legame di possessione che doveva essere sacrificato; e che Abramo effettivamente sacrifica quando fa il gesto di prendere il coltello: è il possessivo ciò che doveva essere «tagliato».
«Se il figlio di Abramo, il suo “unico”, è divenuto un “ragazzo”, è perché suo padre non l’ha risparmiato». Cioè, non gli ha impedito di andare, preservandolo per sé «in un gesto di possesso mosso dal desiderio di proteggere se stesso», tenendolo per sé per assicurarsi l’avvenire. «L’importante non era immolare Isacco, ma non trattenerlo presso di sé in un gesto di dominio» (ANDRÉ WÉNIN, Isacco o la prova di Abramo, Cittadella, Assisi 2005, p. 85 ss.).
Il sacrificio del padre
In realtà, il sacrificio non è quello del figlio ma quello del padre; il figlio ne esce salvo, ma il padre dentro di sé è morto ad ogni passo di quella salita al non meglio specificato monte Moria. L’animale sostitutivo del sacrificio infatti non sarà l’agnello, l’animale figlio, ma l’animale padre, l’ariete. In questo modo, la figura di Abramo diviene prefigurazione nientedimeno che del Padre che dona il Figlio per la vita del mondo. Un onore che nessun altro ha avuto.
Padre e figlio
Una precisazione: noi immaginiamo sempre Isacco come un ragazzino quando viene condotto sul monte del sacrificio; ma nella cronologia biblica ha 37 anni, è uomo fatto; però non è forse sbagliato raffigurarselo giovinetto, perché per un genitore, in fondo, il figlio resta sempre il suo nato, il suo bambino. Lo dimostra la tenerezza del dialogo al centro dell’episodio (22,7-8), fra il figlio che chiede spiegazioni sull’imminente sacrificio («ma dov’è l’agnello?») e il padre che risponde con lo strazio nel cuore: «Dio vedrà» – ancora quel terribile futuro. Questo breve dialogo è incorniciato fra gli appellativi intensamente affettivi in cui gli interlocutori si riconoscono reciprocamente: «Padre mio… Figlio mio». Nel breve dialogo, questi termini ricorrono ben quattro volte e sempre con il possessivo; la domanda di Isacco, straziante perché inconsapevole, fa raggiungere al racconto il culmine del pathos, come pure l’osservazione, insistita, che padre e figlio vanno entrambi unitamente.
Nel corso del racconto, Abramo parla quattro volte. Il terzo giorno di cammino si indirizza ai servitori; con la separazione dai servi l’attenzione si concentra tutta su padre e figlio. Gli altri tre interventi appartengono ad altrettanti dialoghi. Il primo e l’ultimo di questi, che incorniciano il testo, sono quelli di Abramo con Dio, sotto i suoi due nomi di Elohim e di JHWH, mentre il dialogo centrale è quello di Abramo con Isacco. In tutti e tre i casi, Abramo non parla di propria iniziativa, ma risponde ad una domanda; tuttavia è precisamente questa disponibilità all’appello altrui che fa di Abramo l’uomo del dialogo. «Dove sei?» aveva chiesto Dio all’Adamo. L’Adamo si era sottratto alla risposta: «Mi sono nascosto» (Gn 3,9 s.). Abramo invece si espone: «Sono qui». È con questa stessa formula che il racconto del sacrificio si apre e si chiude.
Il figlio della vecchiaia
Secondo il celebre commentatore medievale Rashi de Troyes (commento a Genesi 37,3: «Israele amò Giuseppe più di tutti i suoi figli perché era per lui un figlio della vecchiaia»), amare il figlio della vecchiaia, secondo il metodo del notarikon (acrostico), è amare lo splendore della propria immagine, un rispecchiarsi narcisistico amando se stessi. La prova cui Dio lo sottopone vuol misurare se in suo figlio Abramo ami il proprio riflesso o un-altro-da-sé, e perciò sia capace di amare Dio nella sua alterità radicale e di non vedere in Lui una replica di se stesso che soddisfaccia le sue manchevolezze. Più sarà capace di rompere con l’amore per il figlio, più sarà capace di amare Dio, più imparerà che l’amore di Dio è rottura, ma non necessariamente con gli altri: in se stesso, prima di tutto.
«Abramo parte per una destinazione che solo lui intende, ma che Dio non fissa, e finisce per arrivare a tutt’altro porto… Il cammino compiuto fino al Moria gli farà sorpassare la pregnanza narcisistica della propria immagine per accedere alla contemplazione del figlio di fronte a lui. È in questa prova che Abramo diviene padre e Isacco figlio» (SHMUEL TRIGANO, Le non-sacrifice d’Jsaac in Le sacrifice du fils dans les trois monothéismes, Cerf, Paris 1996, 18-26, p. 19).
La rinuncia al possesso
Abramo rinuncia alla propria paternità come possesso del figlio, tanto più che Isacco non figura da nessuna parte nella scena conclusiva (v. 19), e Abramo sembra tornare solo «verso i suoi ragazzi», i due servitori lasciati al v. 5 con l’asino ai piedi del monte del sacrificio, ed è con essi che va «unitamente verso Beer-Shebha», mentre l’espressione shenehem = entrambi, padre e figlio, è scomparsa. Il primo versante del testo della legatura d’Isacco (Gen. 22,1-11) indica dunque un movimento di disappropriazione, il suo secondo versante un movimento di aggiunzione, di crescita. Nel non-sacrificio di Isacco è in gioco non una logica di appropriazione in concorrenza con l’origine ma al contrario una economia che rende possibile l’unità nella polarità (legatura) o la molteplicità (S. TRIGANO, Le non-sacrifice d’Isaac, p. 25 s.).
«Chi» chiede «che cosa» ad Abramo?
La voce che ordina ad Abramo di sacrificare il proprio figlio non somiglia per niente alle voci divine da lui udite in precedenza, che gli avevano sempre rivelato un Dio di amore, il Dio delle benedizioni e delle promesse. Come avrebbe potuto questo Dio di Amore trasformarsi bruscamente in un Dio della morte che viola tutti i suoi impegni? Ci sono alcune interpretazioni rabbiniche che attenuano l’atrocità della richiesta divina.
I due nomi divini
Il nome che la Bibbia attribuisce all’istanza che chiede ad Abramo di offrire il figlio in sacrificio è Ha-Elohim, Il Dio, in contrastocon il Nome divino che poi gli impedisce di uccidere il figlio, il Tetragramma, JHWH. Poiché il soggetto della richiesta è Elohim, nome comune e generico di entità soprannaturale, secondo una di queste interpretazioni questo Elohim, preceduto dall’articolo (il dio), sarebbe addirittura il diavolo (come entità soprannaturale) che vuole indurre Abramo a compiere un atto abominevole. Il Signore Jhwh, poi, impedirà il sacrificio. Secondo Sanh. 89b (Talmud B.), la richiesta del sacrificio del figlio è demoniaca; secondo Ta’anit 4 a (Talmud B.), i sacrifici umani menzionati in 2Re 3,27 (il figlio primogenito del re di Moab), Gdc 11,30-46 (la figlia di Jefte) e Gn 22 (Isacco) provengono tutti da iniziative puramente umane.
Secondo alcuni commentatori giudaici, è dunque il Satana a spingere Abramo ad interpretare l’appello divino come un incitamento ad uccidere il figlio: come Isacco, anche Abramo sembra cedere alla tentazione di una follia sacrificale, comprendendo l’ordine di far salire il figlio sul monte Moriah come ordine di offrirlo in olocausto. Perciò, il vero senso della prova sarà quello di superare la tentazione sacrificale, ritrovando, dietro le ambiguità di ciò che ha sentito o creduto di sentire, la voce del Dio d’amore che l’aveva guidato fin là.
Alcuni commentari giudaici suggeriscono che Abramo abbia in certo modo interiorizzato la voce demoniaca nel senso di una consapevolezza dolorosa di incompiutezza, di una mancanza di fervore religioso per non avere offerto a Dio neppure una tortorella o una colomba, e quindi del bisogno di provare a Dio e agli uomini l’intensità del suo amore. Secondo un’altra versione, sarebbe Isacco stesso, in una gara di zelo con il fratello Ismaele, a offrirsi in sacrificio (Genesi R. 55,4).
Un gioco di parole
Ma la interpretazione più interessante, che presenta anche un filo di umorismo, è quella secondo cui Dio chiede una cosa e Abramo ne capisce un’altra: Dio comanda ad Abramo di far salire il figlio su un monte, in vista di una salita (con un verbo che è il termine tecnico che designa l’olocausto, che sale in fumo). «Io ti avevo detto “Fallo salire sul monte”, e tu hai capito “Offrilo in olocausto”? Adesso fallo scendere!» (Genesi R. 56,8). L’equivoco è basato su un gioco di parole possibile solo in ebraico, dove il verbo ‘alah, che significa “salire”, ha anche il significato di offrire in olocausto, cioè far salire la vittima (in fumo), visto che nell’olocausto tutta la vittima veniva bruciata. Abramo, nel suo zelo, avrebbe compreso la richiesta divina nel suo significato più rigoroso e duro, mentre Dio aveva solo chiesto di offrire spiritualmente il figlio.
Un sacrificio pasquale

Gli ebrei chiamano il sacrificio di Isacco ‘aqedah, cioè legatura, perché in effetti il sacrificio non vi è stato, ma la vittima è stata legata e poi liberata. Questo non sminuisce affatto l’offerta di Abramo – ed anche di Isacco, perché essendo uomo fatto avrebbe potuto ribellarsi. Già in era precristiana si fa strada l’idea della volontarietà del sacrificio da parte di Isacco.
Ma le interpretazioni rabbiniche più antiche (I-II secolo d.C.) parlano di un sacrificio avvenuto, di un Abramo che non avrebbe fermato la propria mano e avrebbe realmente ucciso il figlio. Secondo alcune tradizioni giudaiche, il sacrificio di Isacco ebbe luogo nell’ora in cui più tardi sarebbero stati sacrificati gli agnelli nel tempio, e la liturgia di Pasqua univa il gesto di Abramo al sacrificio dell’agnello. Alcuni testi suggeriscono che Isacco, realmente immolato, sia stato poi risuscitato da Dio; e che il sangue della ‘aqeda di Isacco liberi Israele dal castigo.
Il terzo giorno
Inoltre, sono importanti le menzioni scritturali ripetute, in contesti di intervento salvifico divino, del “terzo giorno” in cui Dio si fa presente all’uomo, al suo popolo: infatti, Gn 22,4 inaugura la serie dei “terzi giorni” in cui si manifesta l’intervento di Dio (con Gn 40,20: il riscatto di Giuseppe nella festa del genetliaco del faraone; Es 19,11.16: la manifestazione di Dio al Sinai; 2Re 20,5.8: la guarigione di Ezechia; Est 5,1: l’impetrazione di Ester al re; Os 6,2: il risorgimento nazionale di Israele).
Questo primo “terzo giorno” non ci può far dimenticare il contesto di resurrezione in cui Eb 11,17 ss. pone la speranza di Abramo riguardo al figlio: «Per mezzo della fede… Abramo, messo alla prova, ha offerto Isacco, ed è il suo figlio unico, che egli offriva in sacrificio, lui che era il depositario delle promesse, lui a cui era stato detto: E’ attraverso Isacco che tu avrai una posterità che porti il tuo nome. Dio, pensava, è capace anche di resuscitare i morti; è perciò che egli riebbe suo figlio, e ciò fu un simbolo» (Eb 11,17 ss.).
Abramo è andato dunque al di là del figlio, nella promessa rinnovata di una discendenza «come le stelle del cielo e come la sabbia che è in riva al mare» (v. 17) e di una benedizione per «tutte le nazioni della terra» (v. 18). Bachja (BACHJA Ibn PAKUDA, Commento al Pentateuco su Es 19,13, Varsavia 1853) e J. Caro (JOSEPH CARO, Toledhoth Jzchak a Genesi 22,13, Costantinopoli 1518) sostengono anche che l’ariete risuscitò: il sacrificio di Isacco si svolge in un contesto di vita totale.
Il padre, il figlio… e l’asino
Un filo sottile, insospettabile, nel midrash, lega inoltre il sacrificio di Isacco al Messia: il personaggio più insospettato, l’asino, che non svolge nessuna funzione nel racconto (Gn 22,3), se non quella di animale da soma, viene lasciato da Abramo con i servitori ai piedi del monte Moria (22,5), e, quando Abramo ritorna dai servi e con essi rientra insieme a Bersabea, non viene più menzionato, come non viene più menzionato Isacco.
Secondo alcuni midrashim, Isacco esala l’anima nel momento in cui Abramo alza il coltello verso la sua gola e la voce celeste che ferma il gesto di suo padre gli rende la vita. Isacco viene portato temporaneamente in altro luogo, spiega la tradizione (secondo Genesi R. I,327, Isacco viene portato per tre anni in paradiso per guarire dalla lesione infertagli dal padre prima di essere fermato), mentre l’asino rimane nei dintorni del Moria (identificato con il monte del tempio, almeno a partire da 2Cr 3,1), per attendervi la venuta del Messia.
Secondo la tradizione seguita da Rashi ma attestata già secoli prima, questo stesso asino accompagnerà Mosè nel suo ritorno in Egitto come liberatore di Israele (Es 4,20), «ed è l’asino che cavalcherà il figlio di Davide, come è detto: “Esulta, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re… umile, cavalca un asino, un puledro figlio di asina” [Zc. 9,9]». L’asino si presenta così come la cavalcatura inseparabile del salvatore di Israele, fino ad essere considerato come simbolo del Messia.
Il salto nel buio
Allora, se ripercorriamo questo terribile episodio in cui Abramo compie il suo salto nel buio, vediamo che qui è già tutta contenuta la tematica della sofferenza del giusto. Abramo non deve solo subire una sofferenza atroce e incomprensibile alla luce degli stessi progetti di Dio (il figlio che si sente chiedere indietro è il figlio della promessa da cui Dio gli ha assicurato una discendenza numerosa come le stelle nel cielo); deve cercarla, produrla con le sue mani.
La sua risposta, a chiunque lo chiami, è Eccomi; la sua risposta al comando divino è l’obbedienza silenziosa. Siamo ben lontani dalla ribellione di Giobbe e dalla sua pretesa di capire la logica di Dio, ed anche dai lamenti vigorosi di Geremia, e dalla sottile riprovazione del Qoheleth. Abramo accetta, e basta. Non perde tempo e non si lascia fermare da niente.«Dio, pensava, è capace anche di resuscitare i morti» – questo gli attribuisce la Lettera agli Ebrei, sull’onda di quello che già il midrash ebraico affermava.
Un grande mutamento avviene in lui attraverso questa sofferenza; un mutamento che lo rende capace di procedere nel suo cammino e nel suo compito. La storia della salvezza, con lui, ha appena mosso il primo passo, e già siamo all’acme del cammino dell’uomo. Ma noi dovremo fare ben altri passi, nel nostro viaggio nella Bibbia, prima di poter raggiungere di nuovo questo vertice. Il cammino continua.
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