
Il salmo 34 è un salmo di ringraziamento individuale. I salmi di ringraziamento esprimono la riconoscenza specifica per un dono ricevuto. Sono:
a) Salmi di ringraziamento nazionale: 65 (dopo una siccità), 66, 67 (per il dono delle messi), 118, 124 (per la restaurazione nazionale), 129.
b) Salmi di ringraziamento personale: 9-10, 18, 30 (dopo una malattia), 32, 34, 40, 41 (per la guarigione), 52, 107, 116, 138.
Il salmo 34, come il salmo 25, è un acrostico; manca però della lettera waw.
Siamo in presenza di un salmo alfabetico, i cui versetti cioè iniziano con le diverse lettere dell’alfabeto ebraico. È questo un procedimento tipico della letteratura didattica e rende lo schema piuttosto rigido, lo stile alquanto artificioso. La tecnica dell’acrostico alfabetico accosta questo salmo alle Lamentazioni; la parentela ideologica lo accosta invece al Deutero-Isaia. L’autore è probabilmente un “saggio” del periodo post-esilico, che parte da un’esperienza personale di vita per proporla a modello esemplare:
“assaporate e gustate quanto è soave il Signore,
beato l’uomo che a lui si affida!” (v. 9).
Vv. 2-4 Invito al ringraziamento / lode
È un elemento costante dei salmi, anche nel momento della disgrazia. Il canto di benedizione del solista
“benedirò il Signore in ogni tempo,
sulla mia bocca sempre la sua lode” (v. 1)
invita il coro degli ‘anawìm ad associarsi:
“ascoltino i poveri e si rallegrino!
Magnificate con me il Signore,
esaltiamo insieme il suo nome!” (vv. 3 s.).
Gli ‘anawim, umili e poveri, la cui ricchezza è in Dio, possono vivere nella gioia, condividendo l’esperienza dell’orante.
Vv. 5-11 Testimonianza dell’orante
È una testimonianza della salvezza ricevuta: sembra trattarsi di una parentesi liturgica.
Il volto di chi riceve grazia da Dio si fa raggiante come quello di Mosè; come nelle vicende dell’Esodo, l’angelo del Signore lo protegge. L’orante è stato liberato da un pericolo, come da un assedio: come attorno ad una città in pericolo, è accampato intorno a lui l’esercito di Dio simboleggiato da suo angelo. L’invito a temere il Signore è rivolto alla comunità dei Santi del Signore
(v. 10: “temete il Signore, voi suoi santi,
nulla manca a coloro che lo temono”).
Tale timore non deve essere frainteso nel senso di un timore servile o venale: è il desiderio filiale di non deviare dalla Sua volontà.
Ecco, nell’esortazione indirizzata agli ascoltatori, il paradosso di Dio:
“i ricchi impoveriscono e hanno fame
ma chi cerca il Signore non manca di nulla” (v. 11).
Cfr. il cantico di Anna in 1 Sam 2,1-10:
“i sazi sono andati a giornata per un pane,
mentre gli affamati hanno cessato di lavorare”,
e Lc 1, 53 (Magnificat):
“ha ricolmato di beni gli affamati,
ha rimandato i ricchi a mani vuote”.
I leoncelli ™ o i ricchi LXX possono cadere in miseria, ma il Signore sostiene chi lo cerca. Il vocabolo kephirìm = leoncelli tradotto dai LXX con “ricchi”, come pure nella Volgata (divites) e nella Peshitta (kabbìrim), da alcuni critici viene corretto in kebedìm = potenti, ma nel Testo Masoretico si trova l’oscuro kefirìm che nel poema mesopotamico “Dialogo sulla miseria umana” (circa XII secolo a.C.) indica i leoncelli, tipica metafora anche biblica per indicare gli oppressori (sono stati contati nella Bibbia ben 24 animali simboli di altrettanti atteggiamenti umani).
Il v. 9 “Assaporate e gustate quanto è soave il Signore” si riferisce all’incontro con Dio attraverso la Sua parola e nei momenti sacramentali della comunità, all’esperienza liturgica del tempio che si espande nell’intera esistenza del credente in una comunione vitale fra Dio e l’uomo.
Vv. 12-23 Istruzione
Segue l’istruzione su come vedere longevità e felicità: non con la ricchezza e la potenza e la scienza, ma
- con la sincerità nel parlare,
- con la costruzione della pace,
- col perseguimento del bene.
In questa ultima parte (vv. 12-23) il tono è ancora più marcatamente sapienziale, in un rapporto come di padre a figli: chi desidera vita e gioia, le troverà nella ricerca del bene e della pace, della sincerità e della giustizia. I malfattori non saranno ricordati, i giusti saranno ascoltati e liberati, gli affranti sostenuti e salvati.
I tsaddìqìm, i giusti, anche nella sofferenza devono avere fiducia: Dio ascolta il loro grido, vede la loro contrizione, li libera da tutti i mali. Il giusto patisce molti mali, ma Dio
“protegge tutte le sue ossa,
neppure uno sarà spezzato” (v. 21).
Gv 19,33.36 rilegge questo versetto in chiave cristologica:
“I soldati, venuti da Gesù che era già morto, non gli spezzarono le gambe…” (non gli applicarono, cioè, la prassi romana del crurifragium, per abbreviare la vita del crocifisso). “E questo avvenne perché si adempisse la Scrittura: Non gli sarà spezzato alcun osso”.
Il passo biblico citato potrebbe essere Es 12,10 in riferimento all’agnello pasquale, che probabilmente è il testo base per la riflessione dell’evangelista, ma non si può escludere anche un’allusione a Sal 34,9 che appartiene alla serie dei “salmi della passione del Giusto”. L’integrità fisica del corpo era vista nel giudaismo come garanzia della resurrezione alla fine dei tempi. Povero, santo, giusto, affranto di cuore, servo del Signore: chi in Dio si rifugia sarà riscattato da Lui.