Un santo molto popolare in passato, e ancora adesso per un particolare motivo che presto capirete, è S. Antonio abate, sì, non il santo di Padova, ma quello del fuoco di sant’Antonio e del… porcellino. Ma sant’Antonio abate fu padre del monachesimo, si ritirò nel deserto, passò la vita in preghiera, che cosa c’entra con questi due attributi?
La vita di S. Antonio abate
Antonio era nato verso il 250 da una famiglia benestante di agricoltori nel villaggio di Coma (Qumans) in Egitto.
Verso i 18-20 anni rimase orfano dei genitori, con un ricco patrimonio che doveva amministrare e una sorella minore che doveva educare. La sua vita avrebbe potuto essere una vita qualunque, e invece qualcosa intervenne a cambiarla.
Conoscendo alcuni anacoreti che già vivevano in povertà e preghiera nei dintorni dei villaggi, si sentì attratto dall’invito evangelico «Se vuoi essere perfetto, va’, vendi ciò che hai, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo, poi vieni e seguimi». Anche Antonio volle scegliere questa strada: vendette i suoi beni, affidò la sorella a una comunità di donne consacrate e si dedicò alla vita ascetica, prima davanti alla sua casa, poi fuori del paese.
Qui, vedendo l’esempio di un anacoreta che intervallava il lavoro manuale (stava intrecciando una corda) con la preghiera, capì quale fosse la sua strada, quell’«Ora et labora» che sarebbe stata la via maestra del monachesimo. Col suo lavoro si procurava il cibo e lo divideva con i poveri, ma non per questo la sua preghiera era meno assidua. Sant’Atanasio di lui scrisse che pregava continuamente ed era così attento alla lettura delle Scritture che la sua memoria sostituiva i libri.
La vita eremitica
Per una maggiore concentrazione nella preghiera, si ritirò in un’antica tomba scavata nella roccia. Poi, nel 285, si ritirò in una fortezza abbandonata sul Mar Rosso, dove rimase per 20 anni. Qualcuno gli faceva avere del pane; per il resto si cibava di frutti di bosco ed erbe dei campi. La solitudine non gli impedì di avere tremende tentazioni e un periodo di terribile oscurità spirituale. Superò tutto perseverando nella fede, compiendo giorno per giorno la volontà di Dio.
Molti che volevano dedicarsi alla vita eremitica lo seguirono e si formarono due gruppi di monaci che diedero origine a due monasteri, sulle due sponde del Nilo. Ogni monaco viveva in una propria grotta solitaria, ma ubbidiva ad un fratello più esperto di lui nella vita spirituale.
Nel 311 Antonio lasciò l’eremo per confortare ad Alessandria i cristiani perseguitati. Poi volle sostenere con la propria influenza l’amico vescovo di Alessandria, sant’Atanasio, che combatteva l’arianesimo. Tornata la pace nell’impero, per sfuggire ai troppi curiosi si ritirò nel deserto della Tebaide, nell’Alto Egitto, dove visse il resto della sua lunghissima vita. Morì a 106 anni, il 17 gennaio del 356, e fu seppellito in un luogo segreto dall’eremita San Paolo di Tebe con l’aiuto, si dice, di un leone.
Sotto il suo impulso il deserto si popolò di monaci. Erano i primi di quella moltitudine di consacrati che in Oriente e in Occidente portarono avanti il cammino da lui iniziato attualizzandolo secondo le esigenze dei tempi.
Gli Antoniani e il fuoco di Sant’Antonio (herpes zoster)
Nel 561 fu scoperto il sepolcro di Antonio e le sue reliquie cominciarono a circolare nel mondo cristiano, fino ad arrivare, nell’XI secolo, a Motte-Saint-Didier, dove in suo onore fu costruita una chiesa.
In questa chiesa affluivano a venerarne le reliquie folle di malati, soprattutto affetti da ergotismo, causato da un fungo presente nella segale usata per fare il pane. Spesso era unita a questa la malattia, oggi nota come herpes zoster, chiamata ignis sacer (fuoco sacro) per il bruciore che provocava.
Per ospitare tutti gli ammalati si costruì un ospedale e venne fondato l’ ordine ospedaliero detto degli Antoniani; il villaggio prese il nome di Saint-Antoine de Viennois e la malattia si chiamò Fuoco di Sant’Antonio. Nacque così il primo ordine ospedaliero del Medio Evo, i Canonici regolari di S. Antonio di Vienne, detti anche Antoniani. Sulla veste nera portavano cucito un Tau di panno celeste, per cui furono chiamati anche “Cavalieri del Tau”.
Nei secoli XII e XIII l’ordine si espanse in Europa e in terra di Oltremare; in Francia si arrivò a contare 2.000 ospedali. Dal Trecento al Cinquecento l’ordine fu in piena fioritura, con conseguente arricchimento e declino morale di cui parla anche Dante nel Paradiso (XXX, 124: Di questo ingrassa il porco sant’Antonio, ovvero “della credulità della gente si fanno ricchi i monaci antoniani”. Nel 1774 l’ordine si estinse, scegliendo per fondersi con esso l’ordine di Malta a causa della medesima vocazione ospedaliera.
Il maialino di S. Antonio abate
Ecco, in fine, il principale motivo della popolarità di S. Antonio abate nei secoli, e di una rinnovata popolarità anche ai nostri giorni. I malati venivano curati efficacemente con un unguento a base di lardo di maiale. Perciò questi monaci benemeriti ebbero dal papa il privilegio di allevare i propri maiali a spese della comunità. Li lasciavano liberi di circolare e di pascolare ovunque volessero senza pagare tasse, purché portassero una campanella di riconoscimento. Per questo motivo, il maiale (insieme alla campanella) cominciò ad essere associato popolarmente a S. Antonio, che di conseguenza fu considerato il santo patrono dei maiali e per estensione di tutti gli animali domestici.
Il 17 gennaio, giorno della sua memoria liturgica, si benedicono le stalle e gli animali di casa. Ecco perché oggi, benché la società attuale sia per la maggior parte ormai estranea al mondo agricolo, S. Antonio è tornato in auge, come patrono dei piccoli amici che rallegrano le nostre case e spesso confortano la solitudine di tante persone che non hanno famiglia, o non hanno una famiglia che si curi di loro.
Per un altro santo patrono degli animali, San Biagio, cliccare QUI.
Il Tau e il fuoco
Nella sua iconografia compare, oltre al maialino con la campanella, anche il bastone degli eremiti a forma di T, il “tau”, ultima lettera dell’alfabeto ebraico, allusione alla fine della storia e al destino eterno.
Una leggenda popolare narra che sant’Antonio si recò all’inferno, per contendere al diavolo alcune anime. Mentre il suo maialino creava scompiglio fra i demoni, scorrazzando per l’inferno e mettendolo a soqquadro, S. Antonio accese il suo bastone a forma di tau col fuoco, che il diavolo aveva sequestrato, e insieme al maialino lo portò fuori per ridarlo agli uomini.
Per questo il 17 gennaio, nei paesi agricoli e nelle cascine, si usava accendere i falò di sant’Antonio, con funzione purificatrice e fecondatrice. Le ceneri, raccolte nei bracieri casalinghi, servivano a scaldare le mani e, tramite un’intelaiatura di legno a forma di campana (in Toscana, il trabiccolo; il braciere si chiamava caldano), asciugare i panni umidi e intiepidire il letto.