Quello che devo a C.S. Lewis

Quello che devo a C.S. Lewis
Di Pixabay – CC0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=83495156

Quello che devo a C.S. Lewis viene da lontano. Era il 16 marzo 1964 quando acquistai in libreria un romanzo che – lo ricordo ancora distintamente – aveva tutte le apparenze di una storia di fantascienza. Essendo fin dall’infanzia una lettrice di Urania, questo genere mi attraeva. L’autore, un certo Lewis, mi era perfettamente sconosciuto – anche se poi scoprii che non era precisamente così.

Fantateologia

Che mi fossi imbattuta in qualcosa di molto più sostanzioso del solito mi si venne chiarendo man mano. La fantascienza, quella sociologica, se ben scritta, è letteratura seria: ma qui si stava esagerando. Non solo l’autore – chiunque fosse – era uno scrittore coi fiocchi, ma anche quello che mi veniva dicendo era fuori del consueto. Una missione nello spazio, uno strano veicolo… vabbe’, siamo nella norma. Delle oscure e misteriose resistenze da superare… sarà un autore che cura molto la psicologia dei personaggi. Un pianeta esotico, una fauna particolare, strane isole galleggianti, passino: è fantascienza. Ma poi compare una Signora verde, unica della sua specie benché Regina e Madre… e quando spunta fuori anche un Tentatore che la vuole indurre con sofismi a trasgredire l’unica proibizione che le è stata fatta… stento a credere ai miei occhi. No, adesso è troppo, qui siamo in pieno contesto biblico, siamo sbarcati in piena antropologia teologica. In Perelandra, infatti, il protagonista Ransom (guarda caso, un docente di filologia come l’amico di Lewis, J.R.R. Tolkien) rivive il dramma di un peccato originale ancora da compiere: avverrà o non avverrà? Questo libro è un capolavoro.

Da lì mi andai a cercare Lontano dal Pianeta Silenzioso, che lo precede, e Questa Orribile Forza, che lo segue. Così completai la Trilogia Interplanetaria. Fu allora che riaffiorò un ricordo di bambina: anni prima, la Domenica del Corriere, nel 1957 (nei nn. 38-43), aveva pubblicato a puntate un fumetto che non era altro che la trasposizione del romanzo Lontano dal Pianeta Silenzioso, io l’avevo letto, mi aveva incantato anche se i disegni non erano un gran che.

La Trilogia Interplanetaria è rimasta una delle opere che periodicamente amavo rileggere, anche se il terzo romanzo mi sembrava un po’ strano, metteva in scena addirittura il mago Merlino… sconfinava nel fantasy, e a quell’epoca in Italia il fantasy non era per niente conosciuto; o, almeno, ero io che non lo capivo. Per molti anni, dunque, mi fermo lì.

C.S. Lewis: un maestro

Poi, a distanza di tempo, scopro le Lettere di Berlicche. Non c’è altro da dire: quest’uomo è un grande. Ne ripercorro la vita e l’opera procurandomi tutti i suoi libri pubblicati in italiano, arrivo a Narnia… Allora capisco quanto sia grande questo scrittore anche come maestro dello spirito e mi provvedo anche del suo epistolario in inglese, cimentandomi in non poche difficoltà perché la mia lingua scolastica è il francese, ma insomma volere è potere…

Nel frattempo viene anche il momento di insegnarlo in uno dei corsi di Letteratura cristiana dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Siena (l’altro è Poesia e Teologia nella Divina Commedia), e quanto questo corso, ripetuto per anni, sia stato fecondo lo possono dire gli studenti che tuttora stanno suscitando l’entusiasmo dei loro alunni riproponendolo in scuole di ogni ordine e grado. Ma prima ho potuto fare un’altra cosa: ho scritto io stessa un saggio su C.S. Lewis Maestro dello spirito, pubblicato dal Messaggero di Padova nel 2013.

Quello che devo a C.S. Lewis

Tutti i lettori di C.S. Lewis, più o meno, gli devono qualcosa: una frase, una scena, che fanno dire, a chi legge: «Perché egli ha scritto questo proprio per me, e in questo momento?».

Non ho coniato io questa espressione, né ho fatto per prima questa osservazione. È stato Thomas Howard, uno dei massimi esperti di C.S. Lewis e del gruppo degli Inklings, a notare:

«Senza dubbio ci sono decine di migliaia tra noi (e forse ancora di più) che potrebbero intitolare un loro articolo: Quello che devo a C.S. Lewis. Mi arrischio a dire, inoltre, che neppure due di questi scritti sarebbero del tutto uguali. In fin dei conti uno dei paradossi dell’opera di Lewis era proprio che, mentre egli non faceva altro che esporre e scrivere la verità pura e semplice (che resta la stessa di eone in eone), nondimeno si è anche mostrato sempre capace di porre le cose colpendo dritto al cuore di qualcuno, per così dire. Uno ha sempre questa sensazione, mentre legge un’opera di Lewis, qualunque opera di Lewis, di fatto: “Perché egli ha scritto tutto questo proprio per me, e, a fortiori, per la mia situazione particolare in questo particolare momento?”» (Th. Howard, Quello che devo a C.S. Lewis, Introduzione a C.S. Lewis, Prima che faccia notte a cura di E. Rialti, BUR, Milano 2005,7).

Se da principio rimanevo ammirata dell’opera letteraria e della profondità teologica di C.S. Lewis, a un certo punto ho iniziato a sentirlo come un maestro, a richiamarmi alle sue frasi – quelle frasi così concise e così incisive, così semplici e così profonde. Nel giorno in cui ricorre il 60° anniversario della sua scomparsa, è perciò mio desiderio rendergli testimonianza non solo di un’arte consumata, ma anche di una consonanza di cammini che dura da una vita. Il suo cammino, quello di un grande intellettuale di Oxford che ha svolto per Cristo – diceva Lewis – il servizio dell’asinello di Balaam, e il mio cammino, quello di una persona di scuola che ha imparato ad ascoltare.

Su C.S. Lewis un approfondimento QUI.