Gesù, che ha cessato di predicare alle folle in Galilea e va verso Gerusalemme, riserva il suo insegnamento ai discepoli, educandoli alla sua sequela. Pietro torna in primo piano per chiedere che cosa sarà di chi, come loro, ha lasciato ogni cosa per seguire il Maestro: il verbo, al perfetto, indica un’azione avvenuta in passato ma i cui effetti sono permanenti. Quale sarà la loro ricompensa?
Ebbene, nel mondo nuovo, i discepoli di Gesù condivideranno la sua gloria e riceveranno il centuplo di quello che hanno lasciato. Tuttavia, i primi arrivati non saranno in vantaggio: non devono presumere di meritare più degli ultimi, perché tutto è grazia e dono.
Gli operai dell’ultima ora
Lo esemplifica una parabola sconcertante, quella degli operai dell’ultima ora, che, senza aver sopportato la fatica dell’intera giornata di lavoro come i primi, ricevono il loro stesso salario, un denaro d’argento, una buona paga. Dov’è la giustizia?
Notiamo innanzi tutto che gli operai che se ne stanno inerti in attesa non lo fanno per loro scelta, ma perché nessuno li chiama.
In secondo luogo, nessun torto è fatto ai primi chiamati, che percepiscono il salario pattuito, non di meno. Il loro scontento non deriva dall’aver guadagnato poco, ma dal confronto: «non vogliono rinunciare ad essere primi» (A. Mello). Invece di una ricompensa maggiore meritano perciò un blando rimprovero. «Amico» (hetairos, termine proprio di Matteo nel Nuovo Testamento, è detto in tono di biasimo, quasi un’ultima chance offerta per cambiare atteggiamento), rifiuti di condividere la tua ricompensa?
Chi sono i primi e gli ultimi della parabola?
Equivalente alla parabola evangelica c’è una parabola rabbinica che fa ben altra differenza: Israele riceverà un grande salario perché ha fatto un grande lavoro, mentre i popoli del mondo ne riceveranno uno minimo, commisurato al minimo lavoro da essi svolto (Sifra’ a Lv 26,9).
La parabola di Matteo rovescia la logica retributiva meritoria: i pagani, gli ultimi arrivati nella Chiesa, non riceveranno minor ricompensa dei primi, i cristiani della prima ora provenienti dall’ebraismo, che hanno ricevuto subito l’invito.
La parabola non si applica quindi alle singole persone, ma ai popoli: i pagani, invitati dell’ultima ora nella vigna del Signore, avranno la loro ricompensa al pari di Israele che vi ha lavorato da sempre.
Una traduzione inadeguata
Mi permetto, a margine del commento della parabola, di criticare le traduzioni che, per adeguare il linguaggio biblico alle immediate capacità di comprensione dei nostri contemporanei, lo sfigurano rendendo le ore dell’antichità (ora terza, sesta, nona, undicesima…) con i termini moderni. Infatti, l’ora undicesima non corrisponde affatto alle nostre 17.00, che in estate e ad inizio autunno si collocano ancora nel pieno della giornata lavorativa. Perché dico questo?
Mi spiego. Io non so come gli antichi, che andavano in base al corso del sole, riuscissero ad intendersi per gli appuntamenti. Le «ore» dell’antichità infatti non erano ore precise di 60 minuti ciascuna, ma variavano a seconda della stagione. Le ore diurne erano estese a comprendere tutte le ore di luce e venivano divise per dodici, per cui in estate risultavano più lunghe mentre in inverno erano molto più corte. L’ora undicesima poteva coincidere con le cinque del pomeriggio solo negli equinozi, quando si hanno 12 ore di sole e 12 ore di buio.
Per dare un’idea del divario negli altri giorni dell’anno, il 21 dicembre l’ora Prima iniziava verso le 7 e mezzo e arrivava fino alle 8 e un quarto, mentre il 21 giugno iniziava alle 4 e mezzo per arrivare fino a un quarto alle 6. Stessa cosa per l’ora Dodicesima, che variava a seconda del corso del sole. Una bella differenza, no?
Quindi, mentre l’espressione «Ora Undecima» vuol dare l’idea di una giornata ormai conclusa che va verso il suo tramonto, quando poco resta del giorno, le «Cinque del pomeriggio», nelle stagioni assolate, sono ben lontane dalla conclusione del tempo lavorativo.
Perché, invece di cambiare i testi, non si cerca di spiegarli con più cura? Non sono concetti difficili…