«Il problema della sofferenza», il grande problema dell’uomo, è anche il titolo di un importante saggio che C.S. Lewis pubblicò nel 1940. Veramente avrebbe voluto darlo alle stampe anonimo, perché sentiva la propria vita così discordante da quello che aveva scritto in conformità ai principi cristiani in cui credeva, che gli amici, conoscendolo, si sarebbero messi a ridere. Ottenne soltanto di premettervi una Prefazione in cui avrebbe potuto spiegare che l’unico scopo del libro è «tentare di risolvere il problema intellettuale della sofferenza». Riconosce la propria debolezza in parole chiare: «Non mi è mai capitato neppure per un momento di non trovare insopportabile anche il solo pensiero di un forte dolore».
Il problema della sofferenza
L’esistenza di C.S. Lewis non è stata poi così esente dalla sofferenza come potrebbe sembrare vedendolo quarantenne, celebrato professore di Oxford e scrittore cristiano di successo. Emilio Cecchi, suo contemporaneo, riferisce che Lewis veniva chiamato il re di Oxford, e con questa espressione intitola un saggio che gli dedica nel 1947:
«“Re di Oxford”, ho sentito addirittura chiamarlo; “Re di Oxford, senza corona”. Tanto per dire com’è vivamente affermata la sua autorità morale, al di sopra di tutte le gerarchie accademiche. Mi mancherebbero certe specifiche competenze, per discutere la portata teorica della “predicazione” del Lewis. In uno stile piuttosto secco, con un discorso pacato e senza figure, egli illustra i fondamenti della fede religiosa, o commenta aspetti e deviazioni della morale contemporanea, all’intento di un vigoroso ripristino dei principii cristiani. Motivo per cui, almeno fino adesso, la sua azione s’è svolta con largo consenso di pastori e fedeli delle più svariate confessioni britanniche, cattolici inclusi […]. Sarà interessante vedere, tra qualche volgere di tempo, quanto resti, quali saranno i durevoli frutti del suo laico apostolato» [Scrittori Inglesi e Americani, Il Saggiatore, Milano 1962, 258-261].
La storia ha dato risposta a questo interrogativo lasciato in sospeso settantacinque anni fa… Ma quale è stato il suo vissuto di dolore, tanto da sentire l’urgenza di scrivervi un saggio sopra?
L’esperienza di vita
La sofferenza, veramente, iniziò molto presto per C.S. Lewis, nel periodo critico in cui la madre morì – il futuro scrittore aveva solo 10 anni – e in certo senso, perdendo la madre, lui ed il fratello persero anche il padre, uomo eccentrico e passionale che si chiuse nel proprio dolore, divenendo incapace di rapportarsi con i figli. Lewis soffre molto, allora, per la vita in collegio, soffre per la distanza psicologica dai ragazzi della sua età, soffre per un proprio accentuato pessimismo personale che faciliterà il suo abbandono della fede:
«Mi ero formato la convinzione che le cose non sarebbero mai andate come io avrei voluto che andassero. Quello che volevate che restasse diritto si piegava; quello che avevate tentato di piegare si affrettava a tornare diritto; tutti i nodi che desideravate stringere si scioglievano; tutti i nodi che desideravate sciogliere rimanevano stretti».
Arriva al vero e proprio ateismo, ma questo non lo rasserena. «Come molti atei o antiteisti, vivevo allora in un vortice di contraddizioni. Sostenevo che Dio non esiste. Ero anche molto arrabbiato con Dio per il fatto che non esisteva. E ce l’avevo con lui anche perché aveva creato il mondo».
Ventenne, viene ferito al fronte presso Arras, nella Grande guerra. Poi termina gli studi ad Oxford per esservi assunto subito come docente; la sua storia diviene una storia di libri. I libri, e l’amicizia dei colleghi, lo riporteranno alla fede, una fede però assai più matura di quella che aveva ripudiato da ragazzo. La fede fa di lui un uomo felice e uno scrittore cristiano acclamato. Quindi, perché soffermarsi sul problema della sofferenza?
Un saggio apologetico
Il problema della sofferenza è il primo saggio apologetico che Lewis scrive, e lo scrive sul problema cruciale del dolore, che ad una certa logica sarebbe un motivo per rifiutare l’esistenza di Dio, o almeno di un Dio insieme buono e onnipotente: «Se Dio fosse buono, renderebbe le sue creature perfettamente felici, e se fosse onnipotente sarebbe in grado di fa’ quello che ha voluto. Ma le creature non sono felici. Perciò a Dio manca né la bontà, né la potenza, o entrambe». Lewis al contrario sostanzialmente sostiene che il dolore umano, il dolore animale e l’esistenza dell’inferno affermata dal cristianesimo non sono ragioni sufficienti per rifiutare la fede in un Dio buono e onnipotente.
Nel cristianesimo, l’apologetica è quella parte della teologia che si propone di mostrare la ragionevolezza e la credibilità della fede. Il problema della sofferenza rappresenta una pietra di scandalo nei confronti della fede cristiana. Ecco il perché della cura di Lewis nell’affrontare questo spinoso argomento.
Lo scandalo del dolore
Una delle ragioni per cui, prima della conversione, Lewis credeva plausibile l’ateismo, era proprio la considerazione dell’esistenza, anzi dell’ineluttabilità del dolore:
«E com’è questa vita [sulla terra] finché dura? È organizzata in modo che tutte le sue forme vivano facendo preda l’una dell’altra; nelle forme inferiori questo processo comporta solo la morte, ma in quelle superiori appare un’altra qualità, chiamata da noi coscienza, che rende quella morte dolorosa. Le creature provocano dolore quando nascono, infliggono dolore finché vivono, e nella maggior parte dei casi muoiono anche nel dolore.
Nella più complessa di tutte le creature, l’Uomo, appare poi un’altra qualità chiamata da noi ragione, che gli permette di prevedere il suo dolore, il quale pertanto è preceduto da un’acuta sofferenza mentale, e di prevedere la sua stessa morte, pur desiderando ardentemente di sopravvivere. La ragione, con mille artifici ingegnosi, permette inoltre agi uomini di infliggere l’uno all’altro ed alle creature irrazionali molto più dolore di quanto avrebbero potuto fare altrimenti, e questo potere essi lo hanno sfruttato fino in fondo. La maggior parte della loro storia non è che un resoconto di crimini, guerre, malattie, terrore, alternati a periodi di felicità appena sufficienti a dare loro, finché essa dura, un disperato timore di perderla e, una volta che sia perduta, l’infelicità straziante di ricordarla».
Ecco il problema: un Dio buono e onnipotente avrebbe creato un mondo simile? «Se mi chiedete di credere che tutto questo è opera di uno spirito benevolo e onnipotente, devo rispondere che tutte le prove sembrano dimostrare il contrario. O non esiste nessuno spirito dietro l’universo, oppure è uno spirito indifferente al bene e al male, o uno spirito malvagio».
Questo avrebbe risposto il Lewis ateo. E quello credente, conquistato a Cristo dalle testimonianze fornitegli dai libri e dagli amici?