Proseguendo nel suo ministero, Gesù va incontro all’incomprensione, che diviene già una sorta di preludio alla passione. L’incredulità dei nazaretani, la previsione dell’insuccesso per i discepoli, la sorte del Battista sono già indizio di quello che sarà il cammino doloroso di Gesù.
Preludio alla Passione: Nemo propheta in patria (6,1-29)
La prima domanda su Gesù, che denota incomprensione, è posta dai nazaretani (6,1-6): come può un loro compaesano, il carpentiere figlio di Maria, i cui fratelli e sorelle sono persone qualunque, avere tale potenza e saggezza? La situazione qui descritta fa comprendere come la vita precedente di Gesù a Nazareth sia stata quella di una persona che non si distingue dagli altri, di un bambino e poi di un ragazzo che cresce come i suoi coetanei, di un giovane uomo che conduce la propria vita di lavoro e di famiglia come chiunque altro…
Il figlio di Maria
Chiamandolo «figlio di Maria», e non del padre legale Giuseppe, Marco mostra qui di aver consapevolezza della concezione verginale di Gesù, anche se non presenta un racconto dell’infanzia che la espliciti come faranno Matteo e Luca. In effetti, nella realtà storica, Gesù sarà stato “il figlio del carpentiere” (Mt 13,55), “il figlio di Giuseppe” (Lc 4,22; Gv 6,42), come è usanza in quel tipo di cultura denominare il figlio dal nome del padre e non della madre. Il brevissimo e semplicissimo Marco dimostra qui la presenza di una cristologia – e mariologia – più avanzata di quanto non sembri.
Fratelli e sorelle
Si presta invece a fraintendimenti l’espressione «Fratelli e sorelle» di Gesù che sembrerebbe presupporre che la stessa Maria abbia avuto altri figli. Tuttavia, semiticamente, i fratelli possono essere semplici «parenti»: in una società in cui i vincoli di sangue erano così importanti, i familiari sono tutti chiamati “fratelli”, anche se il rapporto di parentela è più largo, come con cugini o biscugini.
Abramo dice a Lot «noi siamo fratelli» (Gn 13,8) anche se sono zio e nipote. Le cinque figlie di Zelofcad della tribù di Manasse, alla morte del padre, non avendo fratelli maschi che possano ereditare i beni aviti, chiedono a Giosuè di poter ereditare esse pure «una porzione in mezzo ai nostri fratelli» (ma se il problema era proprio costituito dal fatto che non avevano fratelli maschi?), e infatti viene loro assegnata, si precisa dopo, «una porzione in mezzo ai fratelli del loro padre» (Gios 17,4), che sono zii o cugini. Spesso, però, non è tra i parenti e i vicini che si trova comprensione. Nemo propheta in patria…
La missione dei Dodici (6,7-13)
Così pure, è incontro all’incomprensione che Gesù manda i Dodici conferendo loro la sua stessa autorità sugli spiriti e sulle malattie (6,7-13). Non li fornisce di mezzi umani, se non un bastone da viandante in mano e un paio di sandali ai piedi. Realisticamente, Marco, che scrive da Roma, sa bene che i calzari sono ormai necessari ai missionari per uscire dal piccolo villaggio palestinese. Ma questo è anche lo stesso corredo della notte di Pasqua: «i fianchi cinti, i sandali ai piedi e il bastone in mano» (Es 12,11).
È previsto anche l’insuccesso: come il Maestro, così i discepoli. Il gesto di scuotere la povere dai propri calzari non è un atto di rabbia o di disprezzo, ma il simbolo del distacco: dalla propria missione non si porta con sé nulla, neppure la povere delle calzature.
Preludio alla Passione. La fine del Battista (6,14-29)
La fama di Gesù rischia di comprometterlo, incuriosendo Erode Antipa che giunge, nei fantasmi della sua cattiva coscienza, a identificarlo col Battista che già aveva fatto uccidere. Una seconda domanda, infatti, è posta da Erode: sarà forse il Battista che ho fatto uccidere?
La morte del Battista è raccontata da Marco con dovizia di particolari, dalla testimonianza di verità che il profeta rende all’odio mortale di Erodiade, all’ambigua debolezza di Erode che è affascinato dal Battista ma anche soggiogato dalla moglie, alla sua sconsiderata promessa, alla crudeltà del martirio.
La promessa di Erode («anche la metà del mio regno») è un’evidente spacconata: egli non possederebbe nulla, se Roma non gliene lasciasse l’usufrutto. Sullo sfondo della forza titanica del profeta si proietta l’ombra confusa di questo re-bambino, che pur di avere il gradimento altrui si sottomette alle altrui voglie, e giunge fino a rompere il giocattolo prediletto perché gli altri lo incitano a farlo. È un re-schiavo, di fronte al quale il Battista si erge come l’uomo libero.