La Cancel Culture non perdona, non perdona neppure la Piccola Casa degli Ingalls, giudicata ormai una Casa politicamente scorretta! Sorprendentemente – ma non poi più di tanto – anche la popolare serie di romanzi dovuti all’esperienza e alla penna di Laura Ingalls, sì, proprio lei, la piccola Laura della Casa nella Prateria con cui sono cresciute dagli anni Settanta diverse generazioni – incorre, dal 2018, nella censura del Politicamente Corretto. Motivo? È razzista!
Intendiamoci, non la serie tv, che essendo stata prodotta nella seconda metà del Novecento (1974 -1983) razzista non è per niente, anzi. No: è razzista la serie di romanzi che ne sta alla base, Little House on the Prairie … Vediamo il perché.
Stop al Premio Laura Ingalls Wilder Award: Piccola Casa addio!
Lo ha deciso l’associazione for Library Service to Children (Alsc), una sezione dell’associazione americana dei Bibliotecari, che dal 2018 ha preferito ribattezzare questo prestigioso premio, nato nel 1954, rimuovendo il nome di Laura e chiamandolo invece Children’s Literature Legacy Award. Al bando Laura Ingalls! Addio Piccola Casa!
Il motivo è che i romanzi dell’autrice sono giudicati razzisti. L’eredità letteraria dell’autrice oggi non appare «universalmente accettata», con posizioni «verso gli indigeni e le persone di colore» cariche di stereotipi che sfiorano il razzismo.
Censura della storia
Questa continua censura di libri appare una vera e propria censura della storia. I racconti autobiografici di Laura Ingalls sono ambientati nel periodo che va dal 1870 al 1890, e non sono racconti di fantasia, ma riflettono la storia di quel periodo, con i suoi pregi e con i suoi difetti. Se, come sostiene l’Associazione dei Bibliotecari, spesso mette «in luce sentimenti anti-amerindi e anti-neri», lo fa perché era quello il clima dell’epoca, e quella era la mentalità di una scrittrice statunitense nata nel 1867 e morta nel 1957.
Ho notato anch’io, leggendoli, una sottostante paura degli indiani che minacciavano la sicurezza degli insediamenti dei pionieri. Era ancora il tempo in cui i «diversi» erano brutti e cattivi, soprattutto quando avevano le armi in pugno. Che potessero aver ragione di difendersi dall’invasione bianca, questo è un altro discorso. Nel cinema, bisognerà aspettare gli anni Settanta per avere una radicale inversione di tendenza che presenterà i nativi americani come vittime e non come aggressori. Ma non si può pretendere che una persona nata in pieno Ottocento abbia questo tipo di sensibilità che sarebbe per lei del tutto anacronistico. E allora che cosa facciamo, correggiamo la storia? Purtroppo non si può, la storia non si può correggere, si può solo falsificare impedendo alle giovani generazioni di vederla per come è stata e proponendo loro una versione educorata e artefatta. Questo è Politicamente corretto?
Narrazioni colonialiste
Allo stesso titolo, anche classici come Peter Pan, Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie e i romanzi di Jules Verne, secondo la York St. John University, sono «narrazioni colonialiste» che potrebbero risultare «offensive» per i lettori di oggi in quanto racconti «razzisti, sconvolgenti e offensivi» perché propugnano la «supremazia bianca». Un rischio grosso, temibile, inammissibile.
Se scendiamo nei dettagli, vediamo che a Peter Pan si imputa la colpa di riferirsi agli indiani che abitano Neverland come a «selvaggi». In Peter e Wendy, Peter è chiamato «Great White Father» mentre si trova tra gli «indiani rossi» da lui chiamati «pickaninnies», cioè negretti. Ne Il giro del mondo in 80 giorni di Jules Verne, Phileas Fogg viaggia in un mondo soggiogato dalle potenze imperiali e l’autore denota pregiudizi razziali, ad esempio collocando ad Hong Kong una fumeria di oppio. Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie presentano il personaggio del Brucaliffo, il bruco che fuma il narghilè, quindi costituisce la rappresentazione di un personaggio orientale contrassegnata da stereotipi.
Anche la Turandot
Ma non basta. Sul banco degli imputati sale anche Giacomo Puccini, che dopo Verdi e Mozart è il compositore lirico più eseguito nel mondo. Al Metropolitan Opera di New York, prima della messa in scena della Turandot, i potenziali spettatori sono avvertiti che l’opera, ambientata in Cina, è razzista e potrebbe risultare offesiva perché «piena di contraddizioni, distorsioni e stereotipi razziali». I paganti di origine cinese si potrebbero offendere per il fatto che la loro eredità culturale viene «dipinta come selvaggia, assetata di sangue o arretrata».
Di questo passo, diventerà difficile leggere, vedere o ascoltare qualunque lavoro prodotto dalle origini delle arti fino agli anni Settanta del Novecento: l’accusa di razzismo (che razzismo magari non è, ma potrebbe essere etnocentrismo, ovvero la tendenza a vedere il mondo dal punto di vista della propria cultura) potrebbe essere rivolta a qualunque autore dei secoli passati. Di questo passo, annienteremmo tutta la nostra letteratura…