«O Dio, perché?». L’insensatezza della guerra e il grido di Giobbe

Perché la sofferenza? La domanda di Giobbe. Georges de la Tour, 1650 circa, pubblico dominio
Giobbe e la moglie. Georges De La Tour (1650 circa)

Perché la sofferenza e l’insensatezza della guerra? Ha fatto il giro del mondo un video agghiacciante (QUI) che mostra un blindato mentre schiaccia (letteralmente e intenzionalmente) un’auto civile. Lo faccio vedere solo perché un video successivo rivela il miracolo: il conducente è stato trovato vivo e cosciente fra i rottami schiacciati ed estratto dai soccorritori, giovani di buona volontà (QUI. Notate il particolare della strada sterrata su cui si trova la macchina: è la stessa in entrambi).

Nella circostanza tragica di un conflitto che ci è tanto vicino e che provoca tanto dolore, è ovvio porsi degli interrogativi. Ci chiediamo: perché tante tenebre nella mente degli uomini? Perché la sofferenza degli innocenti? E perché Dio la tollera, perché non interviene a fermarla, se è vero che può tutto e che gli uomini gli stanno a cuore? Perché l’insensatezza della guerra?

Perché la sofferenza? Il grido di Giobbe

È il grido di Giobbe: «perché?». Un grido che si leva a sollevare scandalo nei confronti di Dio:

«Dalla città sale il gemito dei moribondi

e i feriti chiedono aiuto,

ma Dio non presta attenzione alla preghiera» (24,12).

C’è una risposta a questo grido?

Il dolore di Giobbe è il dolore dell’uomo

C’è un libro, nella Bibbia, interamente dedicato ad una riflessione sul problema del dolore innocente; e noi lo prenderemo come punto di riferimento. Ma non sempre i libri biblici raccontano vicende storiche. Talvolta, come nel caso del libro di Giobbe, hanno per protagonisti personaggi letterari, non per questo umanamente meno «veri» delle figure storiche.

Giobbe non pretende di essere un personaggio storico: è figura ideale di un sofferente che si interroga sulla sofferenza, non solo sulla sua. Lo dice lo stesso incipit del libro: «C’era un uomo in terra di Uz di nome Giobbe…». È analogo ai nostri “C’era una volta…”.

C’era una volta… e c’è ancora

La terra di Uz non è identificabile, è una terra immaginaria, così come gli altri paesi menzionati nel libro. Giobbe viene collocato fuori dello spazio e fuori del tempo; non ha una vera collocazione geografica né storica, non se ne dà una genealogia, come gli agiografi fanno regolarmente quando inseriscono un qualunque personaggio nella narrazione (sono pochissime le eccezioni, come Melchisedek).

Il personaggio di Giobbe, quindi, è l’uomo fuori del tempo e dello spazio: questa terra di Uz non si sa dove collocarla; quest’uomo «integro e retto, timorato di Dio e aliena dal male» viene presentato probabilmente come un Idumeo, ma non vi è alcun tentativo di dare coordinate storiche. Giobbe non è un Israelita, quindi non ha vissuto la propria esperienza di fede all’interno dell’esperienza storica dell’Alleanza. Non è un ebreo né tanto meno un cristiano. È tutti e nessuno in particolare. È soltanto l’uomo, l’Uomo in generale con la “U” maiuscola, l’Uomo che è ognuno di noi.

Ognuno di noi

Giobbe è l’Uomo senza tempo e di ogni tempo, che vive sulla propria pelle il problema del male. Non fa una discussione accademica, soffre atrocemente; è l’uomo nel pieno del problema del dolore, colpito, schiacciato dallo scandalo della sofferenza, che sembra colpire indiscriminatamente sia il giusto che l’ingiusto, anzi a volte sembra proprio accanirsi contro gli innocenti, mentre gli altri trionfano, vivono a lungo ricchi, carichi di giorni, carichi di discendenza.

Lo dice anche il nome del protagonista. Giobbe: secondo una possibile etimologia, vorrebbe dire l’osteggiato, cioè colui che è avversato da qualcuno, preso di mira da un nemico, la vittima di qualche cosa, e potrebbe essere, questo, un significato emblematico. Questo antico scritto vale anche per noi.

L'insensatezza della guerra e Giobbe. Le accuse degli amici di Giobbe. William Blake, pubblico dominio
Giobbe, William Blake

L’Antagonista

Infatti, l’antagonista di Giobbe non è il satana, l’avvocato del diavolo che cerca di mostrare come la sua virtù sia fragile e resista solo in tempi di prosperità. Questo satana è un espediente letterario per far scattare la «prova» di Giobbe; ma il nemico di Giobbe, o almeno così egli lo percepisce, è Dio, colui contro il quale Giobbe grida, contro cui discute.

Nei dialoghi non è mai chiamato JHWH, quindi col nome proprio del Dio di Israele. Solo nella cornice narrativa compare questo nome, ma nel corso dell’opera Dio viene chiamato El, Eloha, Elohim, quindi il nome comune di Dio presso tutti i popoli semiti, oppure Shaddai, l’Onnipotente, il titolo antichissimo con cui lo adoravano i Patriarchi. Pertanto questo Dio protagonista di fronte a Giobbe è il Creatore, non è il Dio storico del popolo di Israele: così come Giobbe è una generalizzazione dell’uomo, così anche questo Dio esce dall’esperienza storica di Israele.

Questi nomi, quindi, designano il rapporto Creatore – creatura, in un certo senso “spersonalizzato”. Non siamo in un cammino storico di fede, ma siamo nel cuore dell’esperienza esistenziale, creaturale, di ogni uomo. Giobbe non è l’Ebreo, non è il Cristiano che ha accolto la Grazia, è l’Uomo universale, l’eterno Giobbe che sempre grida a Dio il suo “Perché?”.

Il grido di Giobbe e il grido di Gesù

In un certo senso, la situazione si replica nel grido terribile di Gesù sulla croce: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15.34: Mt 27,46). È un grido di derelizione, il suo, non di disperazione; assume come proprio l’inizio del Salmo 22, che è un salmo di speranza e di glorificazione; tuttavia, è l’unica volta in tutte le parole di Gesù in cui egli si rivolge al Padre non con l’appellativo familiare e confortante di «Abbà, Padre», ma col titolo molto più distaccato di «Dio», come da creatura a Creatore, rimarcando l’infinita distanza che nell’ora del dolore sembra dividerli.

S. Agostino ha scritto: «Omnis homo Adam, omnis homo Christus» («Ogni uomo è Adamo, ogni uomo è Cristo»); potremmo aggiungere: «Omnis homo Iob» («Ogni uomo è Giobbe»), per questo suo soffrire e gridare chiedendo il perché. Ognuno di noi potrebbe immedesimarsi nella sua vicenda. Sicuramente, lo possono gli innocenti travolti dalla guerra.

Giobbe solo con Dio

Il cuore del libro di Giobbe è il confronto dell’uomo con Dio. Gli altri personaggi sono di contorno, sono funzionali a far emergere il problema della sofferenza mostrando contraddittoriamente alcune possibilità di una soluzione impossibile. Il perché di Giobbe rimarrà senza risposta, o almeno senza una risposta razionale. Una risposta ci sarà, ma sarà di altro genere…

Gli altri personaggi del dramma

Il satana

Nella cornice narrativa troviamo un avversario, un satana, «un» satana, da scrivere quindi con la lettera minuscola, non la personificazione delle forze del male, ma semplicemente un servitore di Dio – o meglio, della corte celeste – che, diciamo così, fa la parte dell’avvocato del diavolo, mette in dubbio la rettitudine di Giobbe.

Ha quindi una sua funzionalità, ma non una parte indispensabile in questo dramma; ha solo la funzione marginale di saggiare, di dubitare, di mettere alla prova  l’integrità di Giobbe, la sua fedeltà (non la sua pazienza: Giobbe è proverbiale per la sua pazienza, ma se leggiamo i dialoghi… ne aveva proprio pochina!). Non è lui il nemico dell’uomo. Quello che nel cuore di Giobbe si presenta come «il Nemico» (con la lettera maiuscola) è Dio.

La moglie

Perché la sofferenza? L'Urlo di Munch, pubblico dominio
L’Urlo di Munch

Abbiamo poi un personaggio marginale, che compare solo, come il satana, nell’introduzione, e che è la moglie di Giobbe. Perché Giobbe perde tutto: bestiame, case, campi, figli, figlie: gli rimane una cosa sola: la moglie, che è un supplemento di tentazione, perché maledice tutto e tutti. Potremmo dire che «ogni uomo ha la sua Santippe», questa figura femminile che in certa letteratura, e talvolta anche nella vita, è il negativo nella esistenza dell’uomo. Però, da un punto di vista esistenziale, la moglie di Giobbe può rappresentare l’uomo devastato, annientato dal male, cioè l’uomo che si identifica così profondamente con quello che ha – e quello che ha sono i figli, cioè tutto da punto di vista umano – che, perdendo questo bene, si annienta completamente.

Questa moglie di Giobbe è la maternità dolorosa; ed effettivamente non si può conoscere dolore più grande e terribile del suo. Vengono in mente le parole della prima Lamentazione: «Voi tutti che passate per la via, considerate e osservate se c’è un dolore simile al mio dolore…» (Lam. 1,12): sono le parole di Gerusalemme, la città madre che ha perso i suoi figli;  e, effettivamente, non c’è nella vita dolore più atroce di quello che colpisce l’uomo attraverso i figli. Quindi, in fin dei conti, la moglie di Giobbe viene quasi giustificata della sua bestemmia, però non si interroga, non pone domande, solo grida la sua bestemmia, si lascia annientare completamente dal male. La sua devastazione sarebbe ben rappresentata dall’Urlo di Munch.

Gli amici

I tre amici di Giobbe, invece, razionalizzano completamente il problema, tanto non tocca a loro soffrire. Quindi possono permettersi di disquisire a lungo proponendo quella che è la tradizionale teoria retributiva: chi è giusto deve essere premiato, chi è empio deve essere punito; per cui chi soffre ha da pentirsi di qualche cosa, magari in un modo nascosto o senza rendersene conto.

Questa facile equazione, ripresa accademicamente dagli amici di Giobbe, si rivela infondata proprio nella difesa che Giobbe fa di se stesso.

Il Libro di Giobbe, in fondo, è tutta una costruzione di contestazione di questa teoria, che invece è durata a lungo in Israele e che rappresenta quello che ogni pio israelita credeva vero: la sofferenza è transitoria; se uno è giusto, poi, Dio lo ricostituisce nella sua ricchezza, nella sua salute, nella sua felicità. Questi tre amici, in fondo, continuano a dire le stesse cose, come in un dialogo tra sordi, tra Giobbe e coloro che sono venuti con la buona intenzione di confortarlo. Questi tre amici rappresentano forse tre categorie di persone, i profeti, i giuristi, i sapienti, fermi nelle loro convinzioni tradizionali e sclerotizzate.

Elihu

Il quarto amico, Elihu, è un giovane della nuova generazione che propone una teoria più raffinata rispetto a quella tradizionale: la sofferenza ha una funzione pedagogica nei confronti dell’uomo, anche del giusto. Senza la sofferenza l’uomo si insuperbirebbe, non conoscerebbe più i suoi limiti, quindi essa è una sorta di strumento che serve a tenere a freno l’uomo nella sua condizione di creatura obbediente al Creatore. Non è detto che chi soffre sia colpevole: piuttosto, è “affinato” dalla sofferenza (ma anche questo, in effetti, non si rivela vero, o sempre vero).

A questo punto, gli attori sono pronti; non ci resta che entrare nel dramma.