
Paolo ha la vocazione al martirio, ma forse non è ancora giunto il momento, né Gerusalemme è il luogo opportuno. Di fronte al sinedrio, diviso tra farisei e sadducei, approfitta della sua conoscenza delle rispettive idee per creare subbuglio.
Atti 23 6Paolo, sapendo che una parte era di sadducei e una parte di farisei, disse a gran voce nel sinedrio: «Fratelli, io sono fariseo, figlio di farisei; sono chiamato in giudizio a motivo della speranza nella risurrezione dei morti». 7Appena ebbe detto questo, scoppiò una disputa tra farisei e sadducei e l’assemblea si divise. 8I sadducei infatti affermano che non c’è risurrezione né angeli né spiriti; i farisei invece professano tutte queste cose. 9Ci fu allora un grande chiasso e alcuni scribi del partito dei farisei si alzarono in piedi e protestavano dicendo: «Non troviamo nulla di male in quest’uomo. Forse uno spirito o un angelo gli ha parlato».
10La disputa si accese a tal punto che il comandante, temendo che Paolo venisse linciato da quelli, ordinò alla truppa di scendere, portarlo via e ricondurlo nella fortezza. 11La notte seguente gli venne accanto il Signore e gli disse: «Coraggio! Come hai testimoniato a Gerusalemme le cose che mi riguardano, così è necessario che tu dia testimonianza anche a Roma».
Paolo verso Cesarea
Sì, Paolo deve andare a Roma, e a Roma andrà, dirigendosi prima verso Cesarea. Nel frattempo, oltre 40 congiurati hanno giurato di uccidere Paolo prima che venga trasferito a Cesarea dal governatore Felice. Le loro trame però vengono sventate grazie ad un figlio della sorella di Paolo che informa il tribuno. Il quale manda Paolo a Cesarea sotto buona scorta, di notte, su di una cavalcatura. Non c’era nessun cavallo nella storia della conversione di Saulo, compare invece, qui, una non meglio precisata cavalcatura, mentre Paolo si allontana forzatamente da Gerusalemme per andare dove il Signore lo vuole, a Roma.
Il termine κτῆνος è generico e potrebbe indicare un qualunque animale da sella; non è obbligatorio pensare, anzi è poco probabile, che si tratti di un focoso cavallo. La partenza da Gerusalemme non è affatto un evento trionfale, come forse il vecchio Saulo si sarebbe immaginato; ma Paolo ne ha fatta di strada.
La parabola del Samaritano
C’è un altro elemento significativo. Sia il sostantivo, ktênos, sia il verbo, epibibázo = far montare, li abbiamo già trovati nella parabola del Samaritano, che è dello stesso autore, Luca (cap. 10). Il samaritano, presumibilmente un mercante, perché la mercatura era uno dei pochi motivi che avrebbero potuto condurlo in Giudea, sente fremere le viscere (splanchnízomai: è la misericordia di Dio) al vedere quel poveretto mezzo morto. Si avvicina, lo medica come può e poi lo fa montare sulla sua cavalcatura per portarlo in una locanda. Quel poveretto su cui il Samaritano, che incarna in sé le viscere di misericordia di Dio, esercita la sua carità, sembra aver preso adesso i lineamenti di Paolo, che scende da Gerusalemme in modo tutt’altro che glorioso. Mai come in questo momento Paolo è vicino a Gesù, tramite i soldati che lo maneggiano come un corpo ormai privo di autonomia.
L’ingresso di Gesù in Gerusalemme
Ma quella situazione, con un diverso sostantivo, pôlos ovvero giovane animale, puledro, ma con lo stesso verbo epibibázo, lo ritroviamo nel cap. 19 quando Luca racconta l’ingresso di Gesù a Gerusalemme. I discepoli fanno montare Gesù su una cavalcatura. Questa volta è Gesù, il Re che viene, che messo nelle mani di altri si presenta sul luogo del suo martirio. Paolo sta somigliando sempre di più al suo Signore, anche nel suo andare verso Cesarea per esservi giudicato. È un uomo in catene, anche se le catene sono metaforiche perché in quanto cittadino romano ha diritti e privilegi.
Claudio Lisia
Veniamo finalmente a sapere il nome di questo accorto tribuno, dalla lettera che, spazzato dagli avvenimenti confusi in cui si è impelagato, scrive al governatore Felice:
Atti 23 26«Claudio Lisia all’eccellentissimo governatore Felice, salute. 27Quest’uomo è stato preso dai Giudei e stava per essere ucciso da loro; ma sono intervenuto con i soldati e l’ho liberato, perché ho saputo che è cittadino romano. 28Desiderando conoscere il motivo per cui lo accusavano, lo condussi nel loro sinedrio. 29Ho trovato che lo si accusava per questioni relative alla loro Legge, ma non c’erano a suo carico imputazioni meritevoli di morte o di prigionia. 30Sono stato però informato di un complotto contro quest’uomo e lo mando subito da te, avvertendo gli accusatori di deporre davanti a te quello che hanno contro di lui».
Diciamo che Claudio Lisia sa giocare le sue carte ed esce bene dall’incresciosa questione, mostrandosi al suo meglio. Ha fatto tutte le mosse giuste: ha salvato un cittadino romano, non ha trovato a suo carico imputazioni rilevanti per il diritto romano, lo ha salvato anche da un complotto… e adesso è bene che se ne occupi un altro.