
La storia si ripete, anche a Tessalonica Paolo incontra opposizione nella comunità giudaica, ad Atene invece ottiene scherno…
Paolo ad Atene
I giudei di Tessalonica sono preoccupati per la presenza di Paolo che mette tutto in discussione. L’accusa che gli muovono è la stessa che fu rivolta contro Gesù: dice che c’è un altro re che Cesare!
Paolo deve partire anche da Tessalonica, si trasferisce a Berea, perseguitato anche a distanza da quelli di Tessalonica: non c’è altro da fare che cambiare strada e arrivare fino ad Atene.
Atene è una città accademica, Paolo ne tiene conto. Attira l’attenzione, lo ascoltano epicurei e stoici, viene convocato davanti all’areopago, tempio della cultura greca.
Paolo fa un bellissimo discorso, partendo da quelli che sono i pregi della cultura greca, la pietà, la filosofia, la poesia. Ma quando deve parlare della resurrezione – non può evitarlo, altrimenti avrebbe annacquato il Vangelo – gli ridono in faccia.
Paolo ad Atene: il testo
Atti 17 «Ateniesi, vedo che, in tutto, siete molto religiosi. 23Passando infatti e osservando i vostri monumenti sacri, ho trovato anche un altare con l’iscrizione: “A un dio ignoto”. Ebbene, colui che, senza conoscerlo, voi adorate, io ve lo annuncio.
24Il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene, che è Signore del cielo e della terra, non abita in templi costruiti da mani d’uomo 25né dalle mani dell’uomo si lascia servire come se avesse bisogno di qualche cosa: è lui che dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa. 26Egli creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della terra. Per essi ha stabilito l’ordine dei tempi e i confini del loro spazio 27perché cerchino Dio, se mai, tastando qua e là come ciechi, arrivino a trovarlo, benché non sia lontano da ciascuno di noi. 28In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come hanno detto anche alcuni dei vostri poeti: “Perché di lui anche noi siamo stirpe”.
29Poiché dunque siamo stirpe di Dio, non dobbiamo pensare che la divinità sia simile all’oro, all’argento e alla pietra, che porti l’impronta dell’arte e dell’ingegno umano. 30Ora Dio, passando sopra ai tempi dell’ignoranza, ordina agli uomini che tutti e dappertutto si convertano, 31perché egli ha stabilito un giorno nel quale dovrà giudicare il mondo con giustizia, per mezzo di un uomo che egli ha designato, dandone a tutti prova sicura col risuscitarlo dai morti».
32Quando sentirono parlare di risurrezione dei morti, alcuni lo deridevano, altri dicevano: «Su questo ti sentiremo un’altra volta». 33Così Paolo si allontanò da loro. 34Ma alcuni si unirono a lui e divennero credenti: fra questi anche Dionigi, membro dell’Areòpago, una donna di nome Dàmaris e altri con loro.
Il discorso di Paolo
È un discorso splendido, ma non funziona. Le premesse sono buone, Paolo è a suo agio nella cultura greca; ma deve pur dire che Cristo è risorto, e l’idea della resurrezione della carne è inaccettabile per la mentalità greca basata su un dualismo tra materia e spirito che spacca in due l’essere umano. Da una parte la componente spirituale, l’anima, o intelletto, o mente, che costituisce veramente l’essere umano. Dall’altra il corpo, la fisicità, un elemento opzionale di cui l’anima è solo rivestita e che potrebbe essere cambiato come un vestito e che alla fine, si spera, sarà dissolto per sempre mentre resterà lo spirito. Non fa parte dell’identità umana. Se nel pensiero greco c’è una qualche fede nella vita eterna, sta nell’immortalità dell’anima svincolata dalle pastoie del corpo.
L’antropologia biblica è agli antipodi di quella greca: non è dualistica ma profondamente integrata. L’uomo non è un’anima incarnata, ma una totalità inscindibile di anima e corpo. La speranza che sviluppa è quella della resurrezione della carne, senza la quale l’essere umano non è completo.
Paolo ad Atene, davanti all’areopago, non può fare a meno di annunciare che Cristo è risorto. E qui si crea lo strappo: l’uditorio lo schernisce apertamente, i più educati gli dicono “Sì, sì, poi ne riparleremo…”. Un fallimento. Ma Paolo non può edulcorare l’autenticità dell’evangelo. E non importa se solo pochi lo accettano: il cristianesimo non sta nei numeri dei battezzati.