
Dopo le angosce di una lunga notte e lo spuntare del primo chiarore dell’alba, finalmente è giorno, il giorno della salvezza. La terra che è davanti a loro non è riconoscibile, ma presenta una insenatura. L’insenatura è un kolpos, che significa seno: come il seno di Gesù su cui il Discepolo amato appoggia il capo (Gv 13,23). Al di là dell’anatomia o della geografia, è uno spazio interiore, un grembo per l’anima. Si può naufragare, ma ci sarà sempre un grembo che accoglie.
Il vento adesso non è più minaccioso, è una brezza che sembra aiutarli. Tuttavia, la nave si arena e inizia a sfasciarsi per la violenza delle onde. È una vera Odissea… La nave non può arrivare fino a riva, bisogna buttarsi. E per non avere la responsabilità dei prigionieri in loro custodia, i soldati pensano di ucciderli.
È il centurione che salva la situazione: impedisce ai soldati questo gesto sconsiderato, perché vuol salvare Paolo, ma in questo modo salva tutti gli altri ordinando «che si gettassero per primi quelli che sapevano nuotare e raggiunsero la terra; poi gli altri, chi su tavole, chi su altri rottami della nave. E così tutti poterono mettersi in salvo a terra» (27,43-44).
In questo modo, il naufragio non rappresenta la fine catastrofica di una vicenda disperata, ma diviene rivelazione della vittoria di Cristo Sulla spiaggia sono tutti in salvo, anche se hanno perso il carico e la nave. Hanno la vita…
Paolo a Malta
Così racconta Luca, partecipe dell’avventura, ai suoi lettori: «Una volta in salvo, venimmo a sapere che l’isola si chiamava Malta. Gli indigeni ci trattarono con rara umanità» (28,1-2).
Gli indigeni sono i bàrbaroi, dallo xenofobo punto di vista greco, per cui gli stranieri sono irrimediabilmente balbuziente, non sono persone umane complete. Questa infatti è l’etimologia della parol: non sanno neppure parlare la lingua degli uomini.
Questi barbari non si sapranno esprimere in greco, ma sono in grado di esprimere la loro filantropia, il loro amore operoso per chiunque. La gentilezza d’animo del centurione romano ha salvato tutti i presenti sulla nave, di qualunque condizione; i maltesi barbari accolgono i naufraghi sena sapere chi siano. Piove e fa freddo, ma un gran fuoco viene acceso da loro come segno di accoglienza calorosa. E qui c’è l’insidia.
Paolo e il serpente
«Mentre Paolo raccoglieva un fascio di sarmenti e lo gettava sul fuoco, una vipera, risvegliata dal calore, lo morse a una mano. Al vedere la serpe pendergli dalla mano, gli indigeni dicevano tra loro: Certamente costui è un assassino, se, anche scampato dal mare, la dea della giustizia non lo ha lasciato vivere». Ma egli scosse la serpe nel fuoco e non patì alcun male. Quelli si aspettavano di vederlo gonfiare o cadere morto sul colpo ma, dopo avere molto atteso e vedendo che non gli succedeva nulla di straordinario, cambiarono parere e dicevano che egli era un dio» (28,3-6).
Scampato fortunosamente dal mare e poi ucciso da un serpente velenoso? È un assassino, gli dèi hanno fatto giustizia – questa è la facile equazione con cui si vorrebbe risolvere il problema della sofferenza. Ma non è così, il veleno del serpente, secondo la promessa di Gesù ai suoi apostoli (Lc 10,19; cfr. Mc 16,18), non ha potere su di lui.
Gli astanti sono barbari, ragionano con i loro schemi: che cosa devono pensare se non che Paolo è un dio? Ma questo non preoccupa Paolo, che venendo ospitato a Malta dalla persona di maggior riguardo, Publio, ha modo di guarire suo padre da una seria malattia. In questo modo dimostra la sua presenza amorevole e solidale alla comunità.
«Dopo questo fatto, anche gli altri isolani che avevano malattie accorrevano e venivano sanati; ci colmarono di onori e al momento della partenza ci rifornirono di tutto il necessario». Si è formata una rete di relazioni e di amicizia.