
A Gerusalemme, sul Monte degli Ulivi, si trova la chiesa del Padre Nostro. In essa si trovano piastrelle di ceramica che riportano in più di cento lingue la preghiera che il Signore insegnò ai discepoli. La chiesa attuale fu edificata nell’Ottocento sul luogo di un edificio distrutto dai persiani nel 614 e successivamente ricostruito dai crociati. Nei chiostri sono murate decine e decine di piastrelle di maiolica in cui il Padre Nostro è scritto in molteplici lingue e dialetti del mondo.
Nell’Ufficio delle Letture di questi giorni ci è stato ripresentato il trattato sul Padre nostro di San Cipriano. Lo ritengo ancora di attualità per commentare la preghiera fondamentale del cristiano. Però voglio premettere un’avvertenza riguardante le due ultime richieste: Non ci indurre in tentazione e Liberaci dal male.
Non ci indurre in tentazione
La tanto contestata traduzione «E non ci indurre in tentazione» è fedele resa non solo del latino «Et ne nos inducas in temptationem», ma anche del greco καὶ μὴ εἰσενέγκῃς ἡμᾶς εἰς πειρασμόν.
Per risolvere l’apparente difficoltà teologica non basta renderla con «Non ci abbandonare alla tentazione»; anzi, la difficoltà si aggrava, perché si suggerisce l’idea che Dio ci possa abbandonare, il che mi sembra anche peggio!
Il problema non sta nella traduzione del verbo. Infatti, εἰσφέρω (eisphéro) significa precisamente «Portare dentro» (ebraico tivî’enû, hiphil del verbo bo’ = condurre dentro). Stesso verbo che si usa in Gn 6,19 per l’azione di far entrare nell’arca gli animali da parte di Noè; o in Dt 31,23 per indicare l’azione di Giosuè di far entrare gli ebrei nella terra promessa, e così via. Ma Dio può farci entrare nella tentazione? Perché il verbo significa proprio questo; il suo opposto è παραφέρω (paraphéro), presente nella preghiera di Gesù al Padre di allontanare da lui il calice.
Il problema sta nella traduzione del sostantivo: peirasmos ha generalmente il significato di prova da affrontare, e non di sollecitazione al peccato (ebraico massah, cfr. Es 17,7 dove Dio viene messo alla prova). Quindi il significato è piuttosto «Risparmiaci la prova», come Gesù chiese al Padre di allontanare da lui il calice. Non la sollecitazione al peccato (impossibile per Gesù), ma l’evento terribile della sofferenza in cui Dio comunque mai manca di essere presente a chi soffre. Sarebbe assolutamente necessario tradurre «Non ci indurre nella prova», o «non ci esporre alla prova». Un articolo di approfondimento QUI.
Liberaci dal male
Il problema qui è rappresentato, in greco, dal genere del sostantivo/ πονηροῦ (poneroû). Al genitivo, questo nome potrebbe essere un neutro (dal male) ma anche un maschile (dal Maligno); intendendo quindi il male come realtà generale oppure colui che del male fa la sua scelta di vita, il diavolo come entità personale. In latino, «libera nos a malo» può avere entrambi i significati. In italiano bisogna scegliere: o l’uno o l’altro. Non che faccia, in fondo, molta differenza.
Dal trattato «Sul Padre nostro» di san Cipriano, vescovo e martire
Nn. 11-26

Sia santificato il tuo nome
Quanto è preziosa la grazia del Signore, quanto alta la sua degnazione e magnifica la sua bontà verso di noi! Egli ha voluto che noi celebrassimo la nostra preghiera davanti a lui e lo invocassimo col nome di Padre, e come Cristo è Figlio di Dio, così noi pure ci chiamassimo figli di Dio. Questo nome nessuno di noi oserebbe pronunziarlo nella preghiera, se egli stesso non ci avesse permesso di pregare così. Dobbiamo dunque ricordare e sapere, fratelli carissimi, che, se diciamo Dio nostro Padre, dobbiamo comportarci come figli di Dio perché allo stesso modo con cui noi ci compiacciamo di Dio Padre, così anch’egli si compiaccia di noi.
Comportiamoci come tempio di Dio, perché si veda che Dio abita in noi. E il nostro agire non sia in contrasto con lo spirito, perché, dal momento che abbiamo incominciato ad essere creature spirituali e celesti, non abbiamo a pensare e compiere se non cose spirituali e celesti, giacché lo stesso Signore dice: «Chi mi onorerà, anch’io lo onorerò; chi mi disprezzerà sarà oggetto di disprezzo» (1 Sam 2, 30).
Anche il beato Apostolo in una sua lettera ha scritto: «Non appartenete a voi stessi; infatti siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo!» (1 Cor 6, 20).
Dopo questo diciamo: «Sia santificato il tuo nome», non perché auguriamo a Dio che sia santificato dalle nostre preghiere, ma perché chiediamo al Signore che in noi sia santificato il suo nome. D’altronde da chi può essere santificato Dio, quando è lui stesso che santifica? Egli disse: «Siate santi, perché anch’io sono santo» (Lv 11, 45). Perciò noi chiediamo e imploriamo che, santificati dal battesimo, perseveriamo in ciò che abbiamo incominciato ad essere. E questo lo chiediamo ogni giorno. Infatti abbiamo bisogno di una quotidiana santificazione. Siccome pecchiamo ogni giorno, dobbiamo purificarci dai nostri delitti con una ininterrotta santificazione.
Quale sia poi la santificazione che viene operata in noi dalla misericordia di Dio lo annunzia l’Apostolo dicendo: «Né immorali, né idolatri, né adulteri, né effeminati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il regno di Dio. E tali eravate alcuni di voi; ma siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio!» (1 Cor 6, 9-11). Ci dice santificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio. Noi preghiamo perché rimanga in noi questa santificazione. E poiché il Signore e giudice nostro impone a chi è stato da lui guarito o risuscitato di mai più peccare, perché non abbia ad accadergli qualcosa di peggio, chiediamogli giorno e notte di custodire in noi quella santità e quella vita, che viene dalla sua grazia.
Venga il tuo regno

«Venga il tuo regno». Domandiamo che venga a noi il regno di Dio, così come chiediamo che sia santificato in noi il suo nome. Ma ci può essere un tempo in cui Dio non regna? O quando presso di lui può cominciare ciò che sempre fu e mai cessò di esistere? Non è questo che noi chiediamo, ma piuttosto che venga il nostro regno, quello che Dio ci ha promesso, e che ci è stato acquistato dal sangue e dalla passione di Cristo, perché noi, che prima siamo stati schiavi del mondo, possiamo in seguito regnare sotto la signoria di Cristo. Così egli stesso promette, dicendo: «Venite, benedetti dal Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo» (Mt 25, 34).
In verità, fratelli carissimi, lo stesso Cristo può essere il regno di Dio di cui ogni giorno chiediamo la venuta, di cui desideriamo vedere, al più presto, l’arrivo per noi. Egli infatti è la risurrezione, poiché in lui risorgiamo. Per questo egli può essere inteso come il regno di Dio, giacché in lui regneremo. Giustamente dunque chiediamo il regno di Dio, cioè il regno celeste, poiché vi è anche un regno terrestre. Ma chi ha ormai rinunziato al mondo del male, è superiore tanto ai suoi onori quanto al suo regno.
Sia fatta la tua volontà
Proseguendo nella preghiera diciamo: «Sia fatta la tua volontà in cielo e in terra», non tanto perché faccia Dio ciò che vuole, ma perché possiamo fare noi ciò che Dio vuole. Infatti chi è capace di impedire a Dio di fare ciò che vuole? Siamo noi invece che non facciamo ciò che Dio vuole, perché contro di noi si alza il diavolo ad impedirci di orientare il nostro cuore e le nostre azioni secondo il volere divino.
Per questo preghiamo e chiediamo che si faccia in noi la volontà di Dio. E perché questa si faccia in noi abbiamo bisogno della volontà di Dio, cioè della sua potenza e protezione, poiché nessuno è forte per le proprie forze, ma lo diviene per la benevolenza e la misericordia di Dio. Infine anche il Signore, mostrando che anche in lui c’era la debolezza propria dell’uomo, disse: «Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice!» (Mt 26, 39). E offrendo l’esempio ai suoi discepoli perché non facessero la volontà loro, ma quella di Dio, aggiunse: «Però non come voglio io, ma come vuoi tu».
La volontà di Dio dunque è quella che Cristo ha eseguito e ha insegnato. È umiltà nella conversazione, fermezza nella fede, discrezione nelle parole, nelle azioni giustizia, nelle opere misericordia, nei costumi severità. Volontà di Dio è non fare dei torti e tollerare il torto subito, mantenere la pace con i fratelli, amare Dio con tutto il cuore, amarlo in quanto è Padre, temerlo in quanto è Dio, nulla assolutamente anteporre a Cristo, poiché neppure lui ha preferito qualcosa a noi. Volontà di Dio è stare inseparabilmente uniti al suo amore, rimanere accanto alla sua croce con coraggio e forza, dargli ferma testimonianza quando è in discussione il suo nome e il suo onore, mostrare sicurezza della buona causa, quando ci battiamo per lui, accettare con lieto animo la morte quando essa verrà per portarci al premio.
Questo significa voler essere coeredi di Cristo, questo è fare il comando di Dio, questo è adempiere la volontà del Padre.
Dacci oggi il nostro pane

Dicendo la preghiera del Signore, noi chiediamo: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano». Ciò può essere inteso sia in senso spirituale che in senso materiale, poiché l’uno e l’altro significato, nell’economia divina, serve per la salvezza. Infatti il pane di vita è Cristo, e questo pane non è di tutti, ma certo nostro lo è. E come diciamo «Padre nostro», perché è Padre di coloro che intendono e credono, così invochiamo anche il «pane nostro», poiché Cristo è pane di coloro che come noi assumono il suo corpo.
Chiediamo quindi che ogni giorno ci sia dato questo pane. Noi viviamo in Cristo e riceviamo ogni giorno la sua Eucaristia come cibo di salvezza. Non accada che, a causa di peccati gravi, ci venga negato il pane celeste, e così, privati della comunione, veniamo anche separati dal corpo di Cristo. Egli stesso ha proclamato infatti: Io sono il pane di vita, che sono disceso dal cielo. Se uno mangerà del mio pane, vivrà in eterno. E il pane che io vi darò è la mia carne per la vita del mondo (cfr. Gv 6, 51).
Dice che se qualcuno mangerà del suo pane vivrà in eterno. È evidente dunque che vivono coloro che gustano il suo corpo e ricevono l’Eucaristia per diritto di comunione. Da ciò si deduce che se qualcuno si astiene dall’Eucaristia si separa dal corpo di Cristo, e rimane lontano dalla salvezza. È un fatto di cui preoccuparsi. Preghiamo il Signore che non avvenga. È lui stesso che pronunzia questa minaccia, dicendo: Se non mangerete la carne del Figlio dell’uomo e non berrete il suo sangue, non avrete la vita in voi (cfr. Gv 6, 53). Per questo chiediamo che ci sia dato ogni giorno il nostro pane, cioè Cristo, perché noi che rimaniamo e viviamo in Cristo, non ci allontaniamo dalla sua vita divina.
Rimetti a noi i nostri debiti
Dopo queste cose preghiamo anche per i nostri peccati, dicendo: «E rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori». Dopo aver chiesto il sussidio del cibo, chiediamo pure perdono delle colpe.
Come è davvero necessario, e come è prudente e salutare essere avvertiti che siamo peccatori, ed essere spinti a pregare per i nostri peccati! In tal modo, mentre chiediamo il perdono a Dio, l’animo fa riemergere la consapevolezza di sé. E perché non avvenga che qualcuno si compiaccia come se fosse senza colpe e, salendo in alto, non abbia a cadere più rovinosamente, viene istruito e ammaestrato che egli pecca ogni giorno, e perciò gli si comanda di pregare ogni giorno per i peccati.
Così ammonisce anche Giovanni nella sua lettera, dicendo: Se diremo che non abbiamo alcun peccato, ci inganniamo da noi stessi, e non c’è in noi la verità. Se invece confesseremo i nostri peccati, il Signore è fedele e giusto, e ci rimette i peccati (cfr. 1 Gv 1, 8). Nella sua lettera ha unito assieme l’una e l’altra cosa: che noi dobbiamo pregare per i nostri peccati e che otteniamo indulgenza quando preghiamo. Con questo, ha anche chiamato fedele il Signore perché mantiene fede alla sua promessa di rimetterci i peccati. Colui infatti che ci ha insegnato a pregare per i debiti e le colpe, ha promesso la sua paterna misericordia e il suo perdono.
Come anche noi li rimettiamo
Cristo vuole che noi chiediamo a Dio il perdono dei nostri peccati, ma ha condizionato il perdono divino al condono dei debiti che gli altri hanno con noi. Dobbiamo dunque ricordare che non è possibile ottenere ciò che chiediamo per i nostri peccati, se anche noi non avremo fatto altrettanto verso chi ha peccato contro di noi. Per questo in un passo del vangelo si dice: Con la stessa misura con la quale avrete misurato, sarete misurati anche voi (cfr. Mt 7, 22). Quel servo che, pur avendo avuto il condono di tutto il suo debito dal padrone, non volle usare la medesima bontà con il servo suo compagno, venne chiuso in prigione. Non volle essere indulgente col suo compagno di servitù, e perse ciò che gli era stato regalato dal padrone.
Questo dovere viene ribadito fortemente da Cristo e confermato con tutto il peso della sua autorità. Egli dice: «Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate, perché anche il Padre vostro, che è nei cieli, perdoni a voi i vostri peccati» (Mc 11, 25). Nessuna scusa ti rimarrà nel giorno del giudizio, quando sarai giudicato secondo il criterio che tu stesso hai usato con gli altri e ciò che avrai fatto agli altri lo riceverai a tua volta. Dio infatti ha prescritto che siamo operatori di pace, concordi e unanimi nella sua casa. Quali ci fece con la seconda nascita, tali egli vuole che perseveriamo, cioè nella condizione di rinati.
Se siamo figli di Dio, rimaniamo nella pace di Dio, e coloro che hanno un solo spirito, abbiano pure un’unica anima e un unico sentimento. Dio non accoglie il sacrificio di chi è in discordia, anzi comanda di ritornare indietro dall’altare e di riconciliarsi prima col fratello. Solo così le nostre preghiere saranno ispirate alla pace e Dio le gradirà. Il sacrificio più grande da offrire a Dio è la nostra pace e la fraterna concordia, è il popolo radunato dall’unità del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.
Anche nei sacrifici che per primi Abele e Caino offrirono, Dio non guardava ai loro doni, ma ai loro cuori, sicché nell’offerta gli era accetto chi gli era gradito nel cuore. Abele, uomo di pace e di giustizia, offre un sacrificio a Dio nell’innocenza, e così insegna che anche gli altri, quando fanno un’offerta all’altare, devono accostarsi con il timore di Dio, con il cuore semplice, con la legge della giustizia, con la pace e la concordia. Abele è tale nel sacrificio che offre a Dio; in seguito si è fatto egli stesso sacrificio a Dio. In tal modo, divenuto il primo dei martiri, poté iniziare, con la gloria del suo sangue, la passione del Signore, perché aveva posseduto la giustizia e la pace del Signore. Solo coloro che agiranno così saranno coronati dal Signore. Solo costoro nel giorno del giudizio condivideranno la gloria del Signore.
Al contrario chi vive in discordia, chi è in disunione e non ha pace con i fratelli, secondo quanto attestano il beato Apostolo e la Sacra Scrittura, non potrà sfuggire alle pene riservate ai fautori della discordia fraterna, neppure se sarà ucciso per il nome di Cristo, poiché sta scritto: «Colui che odia il proprio fratello è omicida» (1 Gv 3, 15), e l’omicida non raggiunge il regno dei cieli e non vive con Dio. Non può essere con Cristo chi ha preferito essere imitatore di Giuda piuttosto che di Cristo.
Non ci indurre in tentazione

Noi desideriamo che Dio non permetta che siamo indotti in tentazione ed Egli ci garantisce che il demonio nulla può contro di noi senza il Suo permesso. In questa petizione tutto il nostro ardore si rivolge a Dio in quanto il potere del demonio dipende dal potere di Dio. Ciò è dimostrato dalla Scrittura…
Sempre secondo la Scrittura, il demonio ha tanto più potere su di noi quanto più grandi sono i nostri peccati: “Chi abbandonò Giacobbe al saccheggio, Israele ai predoni? Non è stato forse il Signore contro cui peccarono, per le cui vie non vollero camminare, la cui legge non osservarono? Egli perciò ha riversato su di esso la sua ira ardente e la violenza della guerra. L’ira divina lo ha avvolto nelle sue fiamme senza che egli se ne accorgesse, lo ha bruciato, senza che vi facesse attenzione” (Is 42, 24 – 25). Ed a proposito di Salomone che peccava, sta scritto che Dio suscitò satana contro di lui.
Nel caso di Salomone, Dio accorda il potere al demonio per castigare il re per il suo peccato; nel caso di Giobbe, invece, il potere al demonio è concesso da Dio per glorificare il giusto che viene sottomesso alla prova. Infatti il Signore dice a Satana: “Ecco quanto possiede è in tuo potere ma non stendere la tua mano su di lui” (Gb. 1, 12). Anche durante la Sua Passione, Gesù ricorda a Pilato che il potere da lui esercitato ha origini divine e che non esisterebbe se Dio non lo avesse consentito.
Quindi, in conclusione, quando preghiamo per non cadere in tentazione, ricordiamoci della nostra debolezza e non attribuiamo alle nostre forze la fedeltà o la fede che dimostriamo. Non dimentichiamo, infatti, l’insegnamento di Gesù nel Getsemani: ”Vegliate e pregate per non cadere in tentazione; lo spirito è pronto ma la carne è debole” (Mc 14,38). È questa professione di umiltà che Gesù ci raccomanda per poter ottenere dal Padre quanto domandiamo.
Ma liberaci dal male
Questa petizione conclusiva riassume brevemente quelle che precedono: infatti, chiede la liberazione da tutto ciò che il demonio può macchinare contro di noi. Tuttavia siamo coscienti del fatto che, di fronte ad un’implorazione così pressante, il Signore accorda il Suo aiuto potente.
Con la richiesta di liberarci dal male non abbiamo più nulla da domandare. Abbiamo Dio per protettore: che cosa possiamo temere? La preghiera del Signore è bellissima: essa racchiude tutte le nostre possibili richieste. A proposito della maestà di Dio, Isaia, pieno di Spirito Santo, aveva annunciato: “In quel giorno il resto di Israele ed i superstiti della casa di Giacobbe non si appoggeranno più su chi li ha percossi ma si appoggeranno sul Signore, sul Santo di Israele, con lealtà” (Is. 10, 20). Il Signore Gesù che è venuto per tutti gli uomini ha riassunto all’essenziale i concetti fondamentali della nostra salvezza: in tal modo anche gli ignoranti possono comprenderli e ricordarli.