Dopo il discorso sul pieno adempimento della Legge (Mt 5,17-48), ecco una nuova messa a punto del concetto di giustizia. Giustizia non è l’irreprensibilità, l’equità e nemmeno lo zelo nell’esecuzione della legge, ma il rapporto intimo, filiale con il Padre che è nei cieli. Un rapporto che si esprime nelle pratiche di pietà dell’elemosina, della preghiera e del digiuno, i tre pilastri della vita spirituale. Un rapporto che si esprime nel Padre Nostro.
Elemosina, preghiera e digiuno erano praticati assiduamente anche dagli osservanti ebrei, soprattutto dai farisei, ma Gesù ne propone una diversa interpretazione.
L’elemosina
Giustizia / tzedaqah in ebraico aveva anche il significato di buone opere e più particolarmente di elemosina. Tuttavia non conta tanto l’opera compiuta, quanto l’umiltà e la carità con cui si compie. Ancora una volta, il discepolo è colui che si conforma a lui nella sincerità.
La figura opposta è quella dell’ipocrita, l’inautentico, il simulatore che recita una parte a beneficio degli astanti o anche, se non ci sono spettatori esterni, a beneficio di se stesso, del proprio ego. Matteo usa 13 volte la parola hypokrités che indicava l’attore di teatro, uno che recita una parte invece di essere se stesso. È uno stile che travalica ogni religione, l’ebraismo come il cristianesimo, minando alla base l’autenticità della fede di ogni religione. Un detto rabbinico insegna che «Chi fa l’elemosina in segreto è più grande di Mosè nostro maestro» (rabbi Eleazar).
Il centro del centro: la preghiera
Questa parte è la sezione centrale del discorso della montagna e il Padre nostro è al centro di questo centro. La preghiera dei figli, insegnata dal Signore, è, così, il centro di gravità dell’intero discorso. Gesù insegna questa preghiera in contrasto con due difetti molto frequenti, uno presso gli ebrei, l’altro presso i pagani, ma che possiamo riscontrare anche in noi stessi: l’ostentazione e il verbalismo.
L’ostentazione
Anche nel caso della preghiera la polemica di Gesù si indirizza verso l’ostentazione: chi viene ammirato dagli uomini ha già ricevuto la propria ricompensa. La necessaria riservatezza della preghiera non è in contrasto con la doverosità della preghiera comunitaria: la camera / tameion in cui rinchiudersi per pregare non è la camera da letto della casa, ma la propria interiorità, il proprio cuore. Tameion è la stanza di cui solo il proprietario custodisce la chiave, nel palazzo dei benestanti la stanza del tesoro, nella casa dei poveri la dispensa. Dove solo noi abbiamo accesso, lì dobbiamo ritirarci per pregare e incontrare Dio. È il luogo del cuore-a-cuore con Dio, anche quando la preghiera è pubblica. Questo detto del Signore quindi non esclude affatto la preghiera comunitaria, ma invita a renderla autentica nella propria interiorità.
La verbosità
Ma c’è un’altra tentazione di inautenticità della preghiera: la verbosità ovvero la ripetizione magica di parole, ponendo nella esattezza della formula e nella sua ripetitività la fiducia dell’esaudimento.
Dei pagani viene biasimato l’atteggiamento magico, ossia il ritenere che la divinità tenga conto del numero di volte in cui viene supplicata e dell’esattezza delle formule con cui ciò viene fatto, in senso meccanico: con la convinzione di ottenere ciò che si chiede se il rituale è esatto.
Gesù insegna invece che Dio è un Padre che vuole un colloquio intimo con i suoi figli, ed è questa la grande rivoluzione cristiana. La paternità divina è molto presente anche nell’Antico Testamento, ma nessun contemporaneo di Gesù si sarebbe rivolto a Dio individualmente chiamandolo «Padre».
Nel discorso della montagna invece questa espressione è centrale e vi ricorre 10 volte: perché l’identikit del discepolo è modellato su quello del Figlio e Gesù indubbiamente chiamava Dio «Abbà», Padre, anzi «Babbo»…
Il Padre nostro
È il clima filiale della preghiera, e non i contenuti, a rendere unico il Padre Nostro. Per le sette richieste, tre riguardanti l’avvento del Regno e quattro riguardanti i bisogni quotidiani, si ravvisano paralleli anche nelle preghiere giudaiche coeve come le Diciotto Benedizioni e il Qaddish che probabilmente anche Gesù, da pio ebreo, ha recitato. Ma lo spirito è diverso.
Venga il tuo Regno…
«Sia santificato il Nome di Dio» significa «sia riconosciuta la sua santità», perché il suo Nome è già santo. Sono gli uomini che devono riconoscerlo santo nella loro vita.
«Venga il suo Regno» è la preghiera perché si affermi la sua signoria nel mondo.
«Sia fatta la sua volontà» è un’implorazione affinché possiamo noi compiere la volontà di Dio. Non è un sospiro di rassegnazione davanti a una Volontà che ci domina e contro cui non possiamo far niente, ma il grido di desiderio che questa Volontà attraverso di noi si realizzi così come è perfettamente adempiuta in cielo.
Non si tratta di necessità divine, ma di necessità nostre. Dio è già Santo, Signore, Onnipotente; siamo noi che dobbiamo manifestarlo nel mondo perché noi stessi siamo pienamente realizzati nella nostra dignità.
Dacci oggi il nostro pane…
Vengono ora le nostre necessità quotidiane, perché non siamo angeli ma esseri di carne e di sangue. Abbiamo bisogno ogni giorno di pane per il corpo e per lo spirito, abbiamo bisogno ogni giorno di perdono come abbiamo ogni giorno bisogno di perdonare.
Più difficile da comprendere è quel «non ci indurre in tentazione» che ha il senso di «non permettere che cadiamo nella tentazione»: Dio non induce in tentazione ma permette o non permette che vi siamo indotti. Basta capire questo per non avere bisogno di traduzioni nuove che non fanno altro che cercare di esprimere questo stesso concetto. Ce lo spiega bene san Paolo: «Dio infatti è degno di fede e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze ma, insieme con la tentazione, vi darà anche il modo di uscirne per poterla sostenere» (1Cor 10,13).
Un chiarimento è semmai necessario a proposito della parola «peirasmos», che può tradursi con «tentazione» ma meglio si rende con «prova». Infatti, non esprime tanto l’attrattiva del peccato quanto la prova della sofferenza. La richiesta, quindi, è di non essere esposti a prove insostenibili.
L’ultima richiesta apposta da Matteo rafforza il senso della precedente: «liberaci dal male», o «dal Maligno», dato che in questo caso il greco non distingue il neutro dal maschile, il concetto astratto dalla persona che lo incarna.
Un approfondimento sul Padre nostro QUI.
Oltre ad alcuni codici, anche la Didaché, alla fine del I secolo, riporta l’antica aggiunta «perché a te appartengono il regno, la potenza e la gloria nei secoli. Amen», che non fa parte del testo originario.
Il digiuno
Infine, il digiuno. questa pratica di devozione era prescritta in alcune feste come il Kippur, ma i farisei, come pratica personale, digiunavano due volte a settimana, il martedì e il giovedì. I discepoli del Battista, che praticavano assiduamente il digiuno, si meravigliavano che i discepoli di Gesù non digiunassero (Mt 9,14). Gesù risponde che non c’è digiuno quando lo Sposo (il Messia) è presente…
Tuttavia, Gesù non condanna il digiuno. Ci tiene però a richiamare l’attenzione dei discepoli su un particolare. La falsa pietà porterebbe il penitente a fare il volto scuro e gli occhi tristi per ostentare il proprio zelo. Il digiuno, per essere gradito, deve essere fatto con gioia e deve rimanere un atto intimo, nascosto agli altri come l’elemosina e la preghiera personale. La ricompensa non è infatti l’ammirazione degli uomini, ma il rapporto filiale con il Padre che vede nel segreto.