Viaggio nella Bibbia. La notte di Pasqua (Esodo 12-13)

Notte di Pasqua: altra sofferenza. Il sangue dell’agnello fa risparmiare le case degli israeliti dalla distruzione, mentre le case degli egiziani sono colpite duramente. Il lutto che l’Egitto minacciava di infliggere ad Israele ricade, invece, su chi l’aveva macchinato. Così pure, di fronte alla minaccia di sterminio sulle rive del mare, saranno gli aggressori a perire. E Dio che fa in tutto questo?

Il sangue dell’agnello

Il sacrificio dell’agnello, in questo caso, non ha valore espiatorio (a Israele non si chiede di espiare i propri peccati, ma solo di aver fede e di aspettare la salvezza dal Signore) ma apotropaico; ossia di allontanamento del male. Il rito derivava da quello dei pastori nomadi. A primavera, prima di levare le tende per condurre le greggi in cerca dei nuovi pascoli, i pastori aspergevano con il sangue di un giovane animale i pali degli attendamenti; in tal modo speravano di scongiurare i pericoli del viaggio, in particolare l’assalto dello Sterminatore (Mashchyth), il Distruttore, lo spirito della morte. L’agnello veniva mangiato insieme ad erbe amare, le erbe del deserto.

Presso Israele, questo rito viene fuso con l’altro, esso pure primaverile, degli agricoltori; i quali purificavano le loro case dal lievito vecchio consumando pane azzimo, quello del nuovo raccolto. Israele li assume entrambi e li fonde, ma li storicizza; mentre i riti originali hanno carattere stagionale, naturalistico, cioè solennizzano solo un passaggio di stagione, ogni anno identico a se stesso, Israele conferisce loro un carattere di passaggio storico, cioè ne fanno il memoriale di un evento: quello della liberazione della notte di Pasqua. Tutti i particolari della celebrazione acquistano un significato storico; il pane è azzimo perché Dio liberò Israele così prontamente che il pane non ebbe il tempo di lievitare; lo charoseth (una specie di marmellata) ricorda la calcina che gli ebrei schiavi dovevano preparare per gli egiziani; le erbe amare ricordano l’amarezza della schiavitù… Una scena dei Dieci Comandamenti (1956) QUI.

Un rito di comunione

Il senso dell’aspersione col sangue (il sangue rappresenta la vita) era, nel rito dei pastori nomadi, quello della comunione con la Divinità e fra i membri del gruppo; la vita condivisa rafforza i legami del clan e lo salva. Israele però non lega questo rito alla stagione primaverile, ma alla storia; non si celebra la primavera che torna ogni anno, si celebra un unicum della storia, un evento avvenuto una volta per tutte. Il rito della Cena pasquale ebraica lo attualizza per le generazioni presenti.

Per Israele ogni festa è uno zikkaron / memoriale di un evento salvifico di Dio, che non solo ricorda, ma attualizza oggi ciò che è successo nella storia. Nella celebrazione pasquale si dice:

«In ogni generazione ognuno deve considerarsi come se egli stesso fosse uscito dall’Egitto, perché il Signore stesso non ha liberato soltanto i nostri padri, ma anche noi insieme con loro»

(Haggadah di Pesach).

Questo è il fondamento anche della nostra liturgia: il memoriale (zikkaron) che non è una commemorazione storica, un rammentare cioè riportare alla mente quanto accaduto in passato, né una rievocazione emozionale, un ricordare cioè riportare nel cuore, ma è un rivivere, un attualizzare nel presente quanto è avvenuto una volta per tutte ma è efficace per noi. Questo è il senso forte, vitale, del verbo ebraico zakar / ricordare. È così che la liturgia eucaristica «ricorda», «fa memoria»: non ripete il sacrificio di Cristo, ma porta noi nel Cenacolo, sul Calvario, davanti al Risorto, ci mette in comunione con Lui nella sua Pasqua.