
Veramente l’espressione ironica «Nembrotte (da strapazzo)», sicuramente ormai desueta, non l’ho mai neppure sentita dire, ma l’ho solo letta in testi letterari. Qualificare qualcuno come Nembrotte significava prenderlo in giro in quanto cacciatore, data la fama di cui tal Nimrod, figlio di Kush figlio di Cam, godeva nella Bibbia:
Genesi 10
8 Ora Kush generò Nimrod: costui fu il primo a divenire potente nella regione.
9 Egli era un valente cacciatore al cospetto del Signore, perciò si suol dire: «Come Nimrod, valente cacciatore al cospetto del Signore».
10 Il nucleo del suo regno fu Babele, Uruch, Accad e Calne nella terra di Sennaar.
Questo modo di dire è del tutto caratteristico, perché non solo è nato dalla Bibbia, ma è nato addirittura dentro la Bibbia!
Per questo Nimrod, italianizzato Nembrotte, restò come archetipo del grande cacciatore; non solo; dato che si parla di regno, di potenza e di diverse città, si presume che Nembrotte non sia stato solamente un cacciatore di animali, ma anche un conquistatore di uomini. La Bibbia non dice altro, ma la tradizione rabbinica ha collegato i vari elementi che lo caratterizzano con la fondazione del regno di Babilonia e la costruzione della torre di Babele narrata nel capitolo successivo.
Giuseppe Flavio
Giuseppe Flavio segue questa strada:
«[Nimrod] trasformò gradatamente il governo in una tirannia, non vedendo altro modo per sviare gli uomini dal timor di Dio, se non quello di tenerli costantemente in suo potere. Disse inoltre che intendeva vendicarsi con Dio, se mai avesse avuto in mente di sommergere di nuovo il mondo; perciò avrebbe costruito una torre così alta che le acque non l’avrebbero potuta raggiungere, e avrebbe vendicato la distruzione dei loro antenati. La folla fu assai pronta a seguire la decisione di [Nimrod], considerando un atto di codardia il sottomettersi a Dio; e si accinsero a costruire la torre…ed essa sorse con una velocità inaspettata» (Antichità giudaiche, I, 114, 115).
Dante

Anche il sommo Dante conosceva questo tipo di narrazione e le dà voce nella Divina Commedia. Lo menziona per ben tre volte, una per Cantica, come Nembrotto, in Inferno XXXI,77 («questi è Nembrotto»); come Nembròt, in Purgatorio XII,34 («Vedea Nembròt a piè del gran lavoro»), e in Paradiso XXVI,126.
Inferno XXXI
“Raphèl maì amècche zabì almi”,
cominciò a gridar la fiera bocca,
cui non si convenia più dolci salmi.69
E ’l duca mio ver’ lui: “Anima sciocca,
tienti col corno, e con quel ti disfoga
quand’ira o altra passïon ti tocca!”72
… Poi disse a me: “Elli stessi s’accusa;
questi è Nembrotto per lo cui mal coto
pur un linguaggio nel mondo non s’usa.78
Lasciànlo stare e non parliamo a vòto;
ché così è a lui ciascun linguaggio
come ’l suo ad altrui, ch’a nullo è noto”.
Purgatorio XII
Vedea Nembròt a piè del gran lavoro 34
quasi smarrito, e riguardar le genti
che ’n Sennaàr con lui superbi fuoro.
Paradiso XXVI
La lingua ch’io parlai fu tutta spenta
innanzi che a l’ovra inconsummabile
fosse la gente di Nembròt attenta:126
ché nullo effetto mai razïonabile,
per lo piacere uman che rinovella
seguendo il cielo, sempre fu durabile.
La torre di Babele
Dante lo ricorda quindi come esempio di superbia punita, e punita con la confusione delle lingue, per cui il suo linguaggio è incomprensibile a chicchessia, e il linguaggio di chiunque è incomprensibile a lui. Gli attribuisce, conformemente alla tradizione giudaica, il «gran lavoro» che fu la torre di Babele e con il quale, come Dante asserisce nel De Vulgari Eloquentia (I,VII,4), l’uomo volle «arte sua non solum superare naturam, sed etiam ipsum naturantem, qui Deus est; et coepit aedificare turrim in Sennaar, quae postea dicta est Babel, hoc est confusio, per quam coelum sperabat ascendere, intendens inscius non aequare, sed suum superare Factorem». Un’opera, dunque, con cui la superbia umana intendeva non solo uguagliare, ma persino superare il Creatore.