Storia di Muffi

Muffi

Era il Martedì Santo del 1984, il 17 aprile. Quella mattina le mie figliole, invece di andare dirette a scuola, tornarono a casa dicendo “Abbiamo trovato un gattino”. Un gattino? Non era un delizioso batuffolo di pelo e fusa, come potevamo immaginare. Era una creaturina appena nata, cordone sempre attaccato, pelle rosa appena velata di nero e di bianco… sembrava un topo spelacchiato. Qualcuno lo aveva buttavo fuori al freddo, nella piazza. Una situazione disperata. Né potevamo immediatamente portarlo dal dottore, bisognava andare al lavoro… occorreva lasciarlo a casa fino al pomeriggio.

Una cosa l’aveva già: il nome, Muffi, perché per le mie figliole tutti i potenziali gatti erano Muffi, avendo trovato questo nome, anni prima, in un libro da bambini. Tutto il resto mancava: il cibo e il calore, e soprattutto una mamma. Lo fornii di calore mettendo nella scatola che lo ospitava una borsa dell’acqua calda, rivestita da una stoffa. Cercai di dargli anche un conforto psicologico mettendogli accanto una gatta di peluche: in qualche modo, si poteva sentire asciutto, al caldo e al sicuro.

Cercammo di dargli un po’ di latte di mucca, sbagliando in pieno. Come ci spiegò il veterinario, il gatto, anche quando è microscopico, è un carnivoro, e non gli va dato il latte scremato e magari allungato con acqua: ha bisogno di un latte denso, quindi almeno il latte intero con dentro un tuorlo d’uovo…  Rimediammo subito comprando il latte specifico per i gattini appena nati. Allattare un neonato di gatto è impegnativo, perché devono mangiare circa ogni tre ore, notte compresa: ho fatto per Muffi le nottate che non ho fatto per le figlie. Fortunatamente eravamo ormai nelle vacanze di Pasqua, e avevamo un po’ più di respiro. Ci avevano dato poche speranze, ma le cure funzionarono, e Muffi incredibilmente crebbe sano e forte, bello e intelligente.

Intelligente

Muffi

Intelligente, sì. Capiva certe parole, diceva “Mamma” (più frequentemente Mammì) perché questa parola è nelle possibilità fonetiche di un gatto e la sentiva spesso dalle mie figlie ancora bambine; crebbe con loro come un fratellino dispettoso, perché un difetto lo aveva, e grosso: non essendo mai stato a contatto con un altro gatto, non sapeva di essere un felino, pensava di essere un umano e non essendo mai stato morso né graffiato nel gioco dai fratellini non sapeva regolare la propria forza. Non era semplice da trattare, ma era uno psicologo. Capiva al volo se una persona era affidabile o se nascondeva in sé una vena di malvagità. Non sbagliava mai. Un sesto senso, immagino.

Era, a suo modo, un intellettuale. Fece tutta la preparazione dell’esame di maturità insieme a Sara, si sedeva sul libro mentre lei studiava la notte. Per tutto il tempo. Gli ciondolava la testa dal sonno, ma non l’abbandonò mai. Se uno di noi si sentiva male, si piazzava sul letto e non lo lasciava finché non era guarito. Non so come facesse a capirlo, ma è così. Una volta che – cose da giovani – mi coprivo gli occhi fra le mani perché avevo un dolore acuto alla fronte, ricordo che con la zampina mi scostò le dita per vedere che cosa c’era che non andava.

Dove nessun gatto è mai giunto prima

Era anche agilissimo e non sopportava che rimanessero, nella casa, zone che lui non fosse riuscito a raggiungere. Saltava molto in alto, e l’unico posto in cui non è riuscito ad arrivare è la cima dello scaldabagno: non per l’altezza, ma per l’esiguità dello spazio fra la sua superficie e il soffitto; non c’era margine per infilarcisi dentro. Quando Sara entrò in convento, volle sempre partecipare alle telefonate che di quando in quando le facevamo: bastava dire “Via, telefoniamo a Sara” che si precipitava all’apparecchio prima di noi, pronto ad ascoltare la conversazione.

Negli ultimi tempi, come accade spesso ai gatti, si ammalò di insufficienza renale, aggravandosi man mano che passavano i giorni. Era debilitato, si muoveva poco. Ma quando Sara tornò a casa, dopo un anno di assenza, per la sua vacanza annuale, appena la vide tirò subito fuori tutte le sue energie ed iniziò a saltare sempre più in alto, sulla porta, sulla libreria alta quasi tre metri, per far vedere che stava bene, che era ancora in gamba ed era contento di vederla… Caro Muffi, quanto bene ti abbiamo voluto!