È scomparso il 16 luglio, alla bella età di 100 anni, monsignor Bettazzi, uomo del Concilio, persona da non dimenticare. Era uno degli ultimi padri conciliari viventi, l’ultimo degli italiani. Fu padre conciliare, vescovo di Ivrea dal 1966 al 1999, uomo del dialogo e fautore di una Chiesa povera. Sottoscrisse il Patto delle Catacombe, unico firmatario italiano insieme ad altri 42 vescovi principalmente dell’America latina. Il Patto era un impegno a realizzare una Chiesa povera, scevra da titoli, privilegi e onorificenze. Uno dei firmatari fu monsignor Hélder Pessoa Câmara.
Il cardinale Matteo Maria Zuppi, presidente della Conferenza episcopale italiana, lo ricorda come «Padre conciliare, promotore di pace e di dialogo con tutti»:
«Rendiamo grazie per la sua testimonianza – si apprestava a celebrare il 77° anniversario di ordinazione sacerdotale e il 60° di episcopato – e per il suo impegno per il Concilio vissuto con libertà e amore per la Chiesa. Il sorriso, la gentilezza, la fermezza, l’ironia, la capacità di leggere la storia e di portare il messaggio di pace sono stati i suoi tratti essenziali. Quegli stessi tratti che ci lascia come eredità preziosa per camminare al fianco degli uomini e delle donne del nostro tempo».
Il Concilio e il Patto delle Catacombe
Luigi Bettazzi era nato a Treviso il 26 novembre 1923 ed era stato ordinato sacerdote a ventitré anni. Si era laureato in Teologia alla Pontificia Università Gregoriana e poi in Filosofia all’Università degli Studi Alma Mater di Bologna. A Bologna era stato vescovo ausiliare del cardinale Giacomo Lercaro e al suo fianco aveva preso parte al Concilio Vaticano II.
Il 16 novembre 1965, pochi giorni prima della chiusura del Concilio, scese con una quarantina di padri conciliari – soprattutto latinoamericani – nelle Catacombe di Domitilla. Lì celebrarono una Eucaristia chiedendo fedeltà allo Spirito di Gesù. Al termine, tutti i vescovi firmarono un Patto. In esso esortavano i fratelli nell’Episcopato a portare avanti una vita di povertà, una Chiesa «serva e povera», come suggerito da Giovanni XXIII. Monsignor Bettazzi così ricordava in una recente intervista con i media vaticani:
«Fu un incontro occasionale, promosso dal collegio belga. Nelle catacombe eravamo in 42, io ero l’unico italiano, ma poi ci siamo impegnati a far firmare ad altri e al Papa sono andate 500 firme di vescovi, e sarebbero state forse anche di più, se le avessimo cercate. La cosa importante è l’attenzione ai poveri e si diceva che il vescovo deve vivere più semplicemente, nelle abitazioni e mezzi di trasporto. Ma deve essere vicino ai poveri e ai lavoratori manuali, a quelli che soffrono e che sono in difficoltà, contro la tendenza che abbiamo ad essere vicini ai ricchi e potenti, che poi ci garantiscono».
Ecco il testo:
«Noi, vescovi riuniti nel Concilio Vaticano II, illuminati sulle mancanze della nostra vita di povertà secondo il Vangelo; sollecitati vicendevolmente ad una iniziativa nella quale ognuno di noi vorrebbe evitare la singolarità e la presunzione; in unione con tutti i nostri Fratelli nell’Episcopato, contando soprattutto sulla grazia e la forza di Nostro Signore Gesù Cristo, sulla preghiera dei fedeli e dei sacerdoti della nostre rispettive diocesi; ponendoci col pensiero e la preghiera davanti alla Trinità, alla Chiesa di Cristo e davanti ai sacerdoti e ai fedeli della nostre diocesi; nell’umiltà e nella coscienza della nostra debolezza, ma anche con tutta la determinazione e tutta la forza di cui Dio vuole farci grazia, ci impegniamo a quanto segue:
- Cercheremo di vivere come vive ordinariamente la nostra popolazione per quanto riguarda l’abitazione, l’alimentazione, i mezzi di locomozione e tutto il resto che da qui discende.
- Rinunciamo per sempre all’apparenza e alla realtà della ricchezza, specialmente negli abiti (stoffe ricche, colori sgargianti), nelle insegne di materia preziosa (questi segni devono essere effettivamente evangelici). Né oro né argento. Non possederemo a nostro nome beni immobili, né mobili, né conto in banca, ecc.; e, se fosse necessario averne il possesso, metteremo tutto a nome della diocesi o di opere sociali o caritative.
- Tutte le volte che sarà possibile, affideremo la gestione finanziaria e materiale nella nostra diocesi ad una commissione di laici competenti e consapevoli del loro ruolo apostolico, al fine di essere, noi, meno amministratori e più pastori e apostoli.
- Rifiutiamo di essere chiamati, oralmente o per scritto, con nomi e titoli che significano grandezza e potere (Eminenza, Eccellenza, Monsignore…). Preferiamo essere chiamati con il nome evangelico di Padre.
- Nel nostro comportamento, nelle nostre relazioni sociali, eviteremo quello che può sembrare un conferimento di privilegi, priorità, o anche di una qualsiasi preferenza, ai ricchi e ai potenti (es. banchetti offerti o accettati, nei servizi religiosi).
- Eviteremo ugualmente di incentivare o adulare la vanità di chicchessia, con l’occhio a ricompense o a sollecitare doni o per qualsiasi altra ragione. Inviteremo i nostri fedeli a considerare i loro doni come una partecipazione normale al culto, all’apostolato e all’azione sociale.
- Daremo tutto quanto è necessario del nostro tempo, riflessione, cuore, mezzi, ecc., al servizio apostolico e pastorale delle persone e dei gruppi laboriosi ed economicamente deboli e poco sviluppati, senza che questo pregiudichi le altre persone e gruppi della diocesi. Sosterremo i laici, i religiosi, i diaconi o i sacerdoti che il Signore chiama ad evangelizzare i poveri e gli operai condividendo la vita operaia e il lavoro.
- Consci delle esigenze della giustizia e della carità, e delle loro mutue relazioni, cercheremo di trasformare le opere di “beneficenza” in opere sociali fondate sulla carità e sulla giustizia, che tengano conto di tutti e di tutte le esigenze, come un umile servizio agli organismi pubblici competenti.
- Opereremo in modo che i responsabili del nostro governo e dei nostri servizi pubblici decidano e attuino leggi, strutture e istituzioni sociali necessarie alla giustizia, all’uguaglianza e allo sviluppo armonico e totale dell’uomo tutto in tutti gli uomini, e, da qui, all’avvento di un altro ordine sociale, nuovo, degno dei figli dell’uomo e dei figli di Dio.
- Poiché la collegialità dei vescovi trova la sua più evangelica realizzazione nel farsi carico comune delle moltitudini umane in stato di miseria fisica, culturale e morale – due terzi dell’umanità – ci impegniamo:
- a contribuire, nella misura dei nostri mezzi, a investimenti urgenti di episcopati di nazioni povere;
- a richiedere insieme agli organismi internazionali, ma testimoniando il Vangelo come ha fatto Paolo VI all’Onu, l’adozione di strutture economiche e culturali che non fabbrichino più nazioni proletarie in un mondo sempre più ricco che però non permette alle masse povere di uscire dalla loro miseria.
- Ci impegniamo a condividere, nella carità pastorale, la nostra vita con i nostri fratelli in Cristo, sacerdoti, religiosi e laici, perché il nostro ministero costituisca un vero servizio; così:
- ci sforzeremo di “rivedere la nostra vita” con loro;
- formeremo collaboratori che siano più animatori secondo lo spirito che capi secondo il mondo;
- cercheremo di essere il più umanamente presenti, accoglienti…;
- saremo aperti a tutti, qualsiasi sia la loro religione.
Tornati alle nostre rispettive diocesi, faremo conoscere ai fedeli delle nostre diocesi la nostra risoluzione, pregandoli di aiutarci con la loro comprensione, il loro aiuto e le loro preghiere.
Aiutaci Dio ad essere fedeli».
Papa Francesco
Nel 2018 monsignor Bettazzi aveva potuto stringere la mano a quel Papa argentino il cui magistero – affermava l’ormai vescovo emerito – proseguiva la linea del Concilio. Soprattutto, mons. Bettazzi apprezzava la sinodalità. La considerava il proseguimento di quell’allargamento della collegialità auspicato dai padri del Vaticano II che non è svalutazione della gerarchia. È, diceva, rivalutazione del popolo di Dio e della «responsabilità di ogni battezzato nella vita della Chiesa».
L’impegno per il dialogo
Fu aspramente criticato per il fatto seguente. Nel luglio 1976, monsignor Bettazzi scrisse una lettera aperta ad Enrico Berlinguer, segretario del Partito Comunista italiano. In essa affermava che era «legittimo e doveroso, per un vescovo, aprirsi al dialogo, interessandosi in qualche modo perché si realizzi la giustizia e cresca una più autentica solidarietà tra gli uomini». Berlinguer rispose solo nell’ottobre 1977, ma rispose. Rivelò quanto fosse cambiata la militanza comunista, definendo il Partito «non teista, non ateista e non antiteista». Ringraziò il vescovo per aver sollevato problemi «la cui soluzione positiva è molto importante per l’avvenire della società e dell’Italia, per una serena convivenza fra tutti i nostri concittadini, non credenti e credenti». Nonostante le critiche, questo scambio di idee rimase importante per la cultura politica italiana. Fu un segno della possibilità di ascoltarsi e comprendersi al di là delle profonde diversità.
L’anno dopo, il 1978, monsignor Bettazzi si offrì in ostaggio in cambio della libertà di Aldo Moro rapito dalle Brigate Rosse. Lo fece insieme ad altri due vescovi, il rossiniano Clemente Riva e Alberto Ablondi vescovo di Livorno. La trattativa però non ebbe seguito: la Curia lo impedì.
L’impegno per la pace
Dal 1966 al 1999 monsignor Bettazzi guidò la diocesi di Ivrea. Nel 1968 fu nominato presidente nazionale, poi nel 1978 internazionale, di Pax Christi, movimento cattolico per la Giustizia e la Pace. Per la pace Bettazzi profuse il proprio impegno. Lo fece con ripetuti appelli, con l’invito all’obiezione fiscale alle spese militari. Lo fece con il sostegno all’«Educazione alla pace» per il quale fu insignito nel 1985 del Premio internazionale UNESCO, con l’adesione ai movimenti pacifisti. Lo provò di persona con la marcia a Sarajevo nel 1992, nel contesto della guerra in Bosnia ed Erzegovina, insieme a don Tonino Bello.
L’interposizione per la pace in Ucraina
Ma questo impegno lo ha accompagnato per tutta la vita. In una manifestazione di maggio scorso a Ivrea, monsignor Bettazzi ha rinnovato il suo appello per l’Ucraina. Ha esortato a seguire tre obiettivi: creare una mentalità nonviolenta, mettere in atto gli strumenti della diplomazia, sviluppare forze di interposizione. E ha spiegato: «Ma come? Significa che bisogna accettare la violenza degli oppressori? No!»: una possibilità è l’«interposizione», cioè «dei volontari che vadano in mezzo». E ricordava: «anche noi nel nostro piccolo, quando andammo a Sarajevo, eravamo là e non hanno sparato». Questo è un motivo di riflessione da cogliere, un’idea da sviluppare, per coloro che affermano una linea di non violenza non propositiva, cioè in pratica solo di resa…